Nasce Deda Project, primo circuito di art delivery

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Nato a Ravenna nell’ottobre del 2019 per opera di Linda Ricci (insegnante di danza e organizzatrice in ambito culturale) e Filippo Bartolini (curatore di eventi artistici indipendenti), Deda Project è il primo circuito di “art delivery” italiano, e nella sua edizione di esordio appena conclusasi ha coinvolto 24 artisti e altrettante opere (selezionate dai due critici Luca Maggio e Maria Letizia Tega), 24 spazi privati (in cui si sono tenuti dieci eventi), quattro presentazioni pubbliche, una mostra temporanea, quasi 1.500 sostenitori sui social network, arrivando a creare una community reale e attiva di settanta persone.

Ma cos’è stato (e cosa sarà) esattamente il Deda Project? Ce lo raccontano gli ideatori, Linda Ricci e Filippo Bartolini.

Tutto è nato un anno fa a seguito di un vostro confronto sulle necessità dell’arte ravennate e soprattutto su quelle del suo fruitore. Poi cosa è successo?

«Poi il confronto si è concretizzato in un progetto che include una sorta di leasing di opere d’arte consegnate mensilmente a casa dei partecipanti, pur mantenendo viva la sensazione di sharing e di appartenenza a una comunità locale attraverso eventi ispirati dal concetto delle prime “home gallery” di New York, che univano artisti e appassionati d’arte. Anche grazie a questi eventi “pop-up” in case, studi privati e centri culturali si è innescato un sano fermento intorno al progetto, rallentato solo a primavera 2020 per i motivi che conosciamo tutti. Il noto mosaicista Marco De Luca ha parlato di Deda come una “piccola utopia che si realizza”, mentre secondo Mario Arnaldi, artista che partecipò al circolo di Tonino Guerra, è “un ritorno a quell’aria di condivisione pura e genuina che nutre l’essenza”. Due definizioni che ci hanno riempito di gioia».

Come pensate che abbia reagito la città di Ravenna?

«Dopo un’iniziale timidezza, forse per il carattere inedito della proposta, gli appassionati d’arte si sono incuriositi e nei pochi mesi successivi sono giunte le prime prenotazioni; poi il passaparola ha fatto il resto. Appena iniziato, gli ospitanti più attivi sulle piattaforme social non hanno mancato di postare le foto delle opere sui loro profili, a volte condividendo personali riflessioni sull’opera, altre trascrivendo i testi che i critici d’arte Luca Maggio e Maria Letizia Tega hanno dedicato a ogni opera. Oltretutto, con nostro grande piacere, il progetto ha attirato l’attenzione di organizzazioni di altre città importanti come Bologna, Berlino e San Francisco, con le quali siamo in contatto, elettrizzati dall’idea di poter collaborare esportando il progetto. Attendiamo gli sviluppi in questo periodo non semplice, ma che ci sta permettendo di individuare le potenzialità e i punti da rafforzare dell’iniziativa».

Immagino che l’organizzazione non sia stata semplice, soprattutto nei periodi di lockdown. Cosa vi ha motivato?

«Siamo due fatalisti che amano la semplice complessità della natura umana e che credono nell’arte come importante strumento per sondarla. Entrando in casa degli ospitanti venivamo sempre accolti dalla loro gentilezza e ospitalità. Inutile dire che ogni opera lasciava qualcosa nei luoghi che visitava e viceversa. La sensibilità di alcuni ospitanti li ha portati a organizzare eventi privati fuori dal comune, come house concert, aperitivi in terrazza, esposizioni guidate, proiezioni ad hoc, meditazioni guidate con installazione e così via. L’arte visiva è diventata quindi un bellissimo pretesto per parlare di cultura in generale, di musica, cinema, discipline orientali, letteratura e poesia, e per conoscere personalità interessanti di Ravenna in ambito informale e inclusivo. Tutto questo ci ha motivato anche nei mesi più incerti, e alla fine per 240 volte un’opera è stata accolta in un nuovo spazio e sette opere sono state acquistate dagli ospitanti».

E per il futuro?

«Stiamo lavorando per l’edizione 2021-22 del Deda Project, vogliamo essere pronti, adattativi agli avvenimenti e poi stimolare chi ne prenderà parte. Un’anticipazione che possiamo dare è la conferma di Luca Maggio come critico: con la sua grande sensibilità ha contribuito a rendere le opere degli artisti più vicine alla comprensione, omaggiandole con le sue calibrate ma profonde parole».

Un’ultima curiosità: perché il nome Deda Project?

«All’inizio eravamo incerti perché sapevamo che l’idea era importante ma complessa da sviluppare. Volevamo creare un circuito che mettesse in relazione le persone attraverso l’arte e che la proiettasse oltre gli schemi già conosciuti, incentivando la contemplazione e lo sviluppo di un personale e consapevole senso critico. Volevamo per il progetto un nome e un logo capaci di sintetizzare tutto questo e di ispirare apertura e dinamicità: Deda è acronimo di Dimensione Evasiva D’Arte e il suo logo è un piccolo Icaro che sta imparando a volare. In mano porta una casa, simbolo della psiche e del rapporto dentro/fuori».

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