Massimo Popolizio in "Uno sguardo dal ponte" al Bonci

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È un classico del Novecento, Uno sguardo dal ponte (1955) di Arthur Miller. È una storia famigliare di migranti siciliani nella Brooklyn degli anni Cinquanta; storia ripresa a teatro da Luchino Visconti, e nel 1967 da Raf Vallone (lo spettacolo fu anche al Bonci); Vallone la interpretò nel cinema diretto da Sidney Lumet.

A fare rivivere oggi questa vicenda passionale che finisce in tragedia è Massimo Popolizio (1961) da stasera alle 21 a domenica 26 febbraio (ore 16). Lo interpretano Valentina Sperlì, Raffaele Esposito, Michele Nani, Lorenzo Grilli, Gaja Masciale, Felice Montervino, Marco Mavaracchio, Gabriele Brunelli, oltre al protagonista Popolizio, curatore pure della regia.

La trama

La storia racconta di Eddie Carbone, portuale newyorchese che vive a Brooklyn con la moglie Beatrice e la nipote diciottenne Catherine, di cui è morbosamente geloso. Quando ospita Marco e Rodolfo, cugini della moglie, immigrati clandestinamente negli Stati Uniti dalla Sicilia, Catherine e Rodolfo si innamorano ma Eddie non può sopportarlo. Prima si convince che il giovane è omosessuale e vuole farsi sposare per avere la cittadinanza americana; poi denuncia i due parenti clandestini all’Ufficio immigrati. Finirà ucciso.

Popolizio, dopo l’epopea di “M il figlio del secolo” fatta a Milano e a Roma, rieccola in tournée.

«Abbiamo scelto un classico popolare rinfrescando la visione di Miller che poteva sembrare stereotipata. Qui in un’ora e 35 minuti tutto scorre velocemente, con impianto quasi cinematografico di flash, scansioni in scene simili a primi, secondi, terzi piani. Il testo ha come nucleo universale la passione, l’autodistruzione di un uomo per un amore impossibile. Nulla a che vedere con pedofilia o morbosità. Piuttosto con quell’amore passionale che secondo me è molto vivo a certe latitudini del mondo, come in un certo sud».

Eddie possessivo verso la nipote vuole impedirle di amare un coetaneo, non è storia che continua in tante cronache del presente?

«Credo che il nucleo di questa commedia ci appartenga, ieri come oggi. È la passione impossibile di un uomo che vorrebbe che la ragazza restasse bambina. Non per metterle le mani addosso, ma per amore. Il testo tratta di questo, di come si paga con la vita qualcosa che è impossibile. Secondo me è un testo universale sul tema del possesso. La malattia di Eddie Carbone è il rifiuto di vedere crescere la ragazza che è la sua passione. Vuole che Catherine resti il suo oggetto amoroso. La moglie gli chiede “quando tornerò a essere tua moglie?”. Lui ha un transfer affettivo dalla moglie alla ragazzina, ma non erotico».

Almeno nello spettacolo verrà punito?

«Verrà travolto da un qualcosa che non sa decifrare, una sorta di tsunami interiore di gelosia che lo spinge a un’azione nefanda contro i due uomini che aveva accolto. In questo senso il testo è molto bello, proprio per questa discesa agli inferi, un arco tremendo che copre Eddie Carbone che finisce nel fondo. Ha un qualcosa di molto popolare perché Miller è abile come scrittore; come dice Emanuele Trevi, i suoi plot sanno come colpire. È anche un testo di teatro, incentrato sull’interpretazione dell’attore e richiede una compagnia di livello».

Come interpreta il suo Eddie Carbone?

«Lontano dagli Eddie in giaccone di pelle e canottiera, il mio sembra mio nonno di Acireale emigrato a Genova. Mai sporco di grasso ma in camicia bianca, giacca scura, cravatta nera, fazzoletto in tasca. Uomini d’altri tempi con carica umana ed erotica insieme, come unico pensiero la famiglia. Ma che, davanti a crepature, qui la passione per la nipote, sono devastati».

Ci dica di lei, navigato attore di teatro e cinema; che tipo di interprete si considera?

«Guardandomi indietro mi accorgo di essere attore di grande esperienza. Ho fatto 35 spettacoli con Luca Ronconi, condividendo la scena coi più grandi attori italiani, e altri 90 spettacoli senza Ronconi. Credo sia una quantità esagerata per un sessantenne. Ciò che mi coinvolge ancora è fare teatro insieme. Penso che il nucleo di questo nostro lavoro siano gli attori; una compagnia numerosa, un gruppo di attori affiatato che condivide la stessa etica di lavoro, questo mi dà vita».

Cosa del maestro Ronconi porta con sé?

«Non avrei certo fatto il regista se Ronconi fosse ancora vivo, non avrei avuto il coraggio. Anche se non c’è più, lo sento colui a cui devo mostrare quello che faccio, ed è faticoso cercare di alzare ogni volta l’asticella».

Sabato 25 febbraio alle 18 nel foyer del Bonci incontro con Popolizio a ingresso libero.

Info: 0547 355959

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