Lo chef riminese Enrico Croatti alla Locanda San Leone di San Leo

SAN LEO. Ne ha 36 adesso. Ma quando prese in mano la cucina della Locanda San Leone di San Leo, ne aveva solo 17. «E pochi giorni dopo mi ritrovai a gestire un matrimonio da 250 invitati…».
Così ricorda i suoi esordi lo chef riminese Enrico Croatti, un cervello in fuga a fasi alterne per quasi due decenni e ora di ritorno in Italia per dirigere, dai primi di luglio a Milano, l’innovativo “Moebius” nuovo locale dell’imprenditore toscano Lorenzo Querci, ispirato al noto fumettista francese che aprirà in via Cappellini 25.
Questo, per Croatti, è il terzo ritorno in Italia dopo aver lavorato a Los Angeles con il riminese Gino Angelini, poi in Spagna all’Akelarre con Pedro Subijana, tre stelle Michelin di San Sebastian; in Francia al Les Terrasses de Lyon del Villa Florentine di Lione, quindi una prima volta in Italia al Grand Hotel Miramonti Majestic di Cortina d’Ampezzo e poi ancora in Francia, a Lione, con Paul Bocuse a l’Auberge du Pont de Collonges. Nella valigia di questo globetrotter della cucina mondiale, due stelle Michelin: una conquistata nel 2013 a Madonna di Campiglio come executive chef del Dolomieu, la seconda è arrivata lo scorso anno come chef dell’Orobianco di Alicante.
E per questo “Ritorno al futuro”, come lui stesso l’ha definito, Croatti ha voluto rimettersi per un giorno (domenica scorsa) ai fornelli del primo locale che gli diede fiducia a San Leo: «Avevo due motivi per tornare in patria – afferma lo chef –. Il primo è l’apertura del Moebius a Milano, un vero e proprio ritorno alle origini dell’osteria gastronomica, ma resa più contemporanea con una ricerca tra Romagna e Toscana che si incontrano sull’Appennino. Una nuova forma di cucina, è questa la mia ambizione. Il secondo motivo era proprio la Locanda San Leone di San Leo, un luogo davvero magico. Qui 20 anni fa ho cominciato a raccontare la mia cucina, qualcosa che poi ha preso forma all’estero: ma qui sono nati alcuni dei miei piatti che ho voluto riproporre, rivisitandoli».
Dopo tanto lavorare per altri, non era per lei giunto il momento di mettersi in proprio, di aprire un suo locale?
«Non mi sono mai ritenuto un dipendente, in tutti i posti dove ho lavorato. Piuttosto uno di famiglia, se non un socio. L’aspetto manageriale potrebbe distrarmi dalla creazione, quindi lo lascio volentieri ai miei partner, per concentrarmi sulla cucina».
Lei si definisce un cuoco più che uno chef (capo).
«Il team è importantissimo e dirigerlo bene è fondamentale. Ma se manca la base creativa che ti fa sognare, se mancano i piatti che fanno la differenza… In questi 20 anni ho preso perfetta coscienza di come funziona una cucina, di cosa c’è bisogno. Ho una visione a 360 gradi e riesco ad esprimermi al meglio».
Dicono di lei che è uno dei non numerosissimi chef stellati dai cui locali si esce senza avere ancora fame…
«Il menù è la vera carta d’identità di un buon cuoco. Certo il pubblico dei ristoranti di un certo livello cerca l’esperienza, specie in un locale stellato, il cosiddetto effetto “wow”. Ma non bisogna mai dimenticare che mangiare dev’essere gratificante anche per lo stomaco, non solo per il palato e la vista. Anche se si tratta di una degustazione, il cliente deve sentirsi appagato. E i miei lo sono».
Le lancio una provocazione: ci sono ormai in Italia così tanti chef, specie in televisione, che fra poco non avremo più bisogno di voi, saremo tutti in grado di cucinare piatti gourmet…
«Io ho cominciato alla “Prova del cuoco” e non lo rinnego, per me è stata un’esperienza fondamentale. La tv è un veicolo importante per la cucina. Ma il tuo lavoro per essere riconoscibile, deve sempre rappresentare un’anima, un’idea, deve stupire sì, per fare audience, ma non può essere solo fuffa; ci vuole follia, ma anche tanta cultura gastronomica. Al Moebius metterò in pratica tutto questo, sperimentando il futuro sul passato con un innesto che vi stupirà. Siete tutti invitati!».

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