Libro: Franz Kafka - Il castello

L’arrivo dell’agrimensore K. nel paesino che circonda un castello, e la scoperta che non è benvoluto e non può restare, costituisce la totalità del racconto de “Il castello”. Pubblicato nel 1926 questo romanzo di Franz Kafka, riproposto ora da Il Saggiatore nella nuova traduzione di Alessandra Iadicicco, ha, nel suo procedere attraverso dettagli relativamente lineari, il sapore tipico dell’incubo. La commistione tra assurdo e reale operata dallo scrittore praghese appare quanto mai sottile: gli eventi raccontati sembrano autentici, eppure restano totalmente alieni. A prevalere è l’immobilità dei personaggi, un senso di distacco e l’impressione che tutti interpretino consapevolmente una parte. Invece di raccontare una storia, “Il castello” vuole, alla fine, evocare un’atmosfera di perenne disagio, dando al lettore la sensazione di abitare un mondo in cui la paura fa sempre capolino e nel quale ogni cosa rischia di essere oscurata dagli infiniti ostacoli della burocrazia.

La scrittura di Kafka, caratterizzata da una tonalità fortemente asettica e impersonale, assume qui (come accade in tutte le sue opere) un significato quasi paradossale, è tanto più “catartica” e liberatrice dai fantasmi interiori dell’autore quanto più è “oggettiva” e priva di immediati riferimenti autobiografici espliciti.

Con gli occhi puntati sul castello, K. proseguì; non aveva in mente nient’altro. A mano a mano che vi si avvicinava, però, il castello lo deludeva, non era che una miserabile cittadina composta da casupole di paese caratterizzate solo dal fatto di essere tutte, forse, costruite in pietra, ma l’intonaco era venuto via da un pezzo e la pietra sembrava sgretolarsi. K. ricordò fugacemente il suo paese natio, non aveva niente da invidiare a questo presunto castello, se fosse arrivato fin qui solo per visitarlo avrebbe fatto una lunga peregrinazione per niente e sarebbe stato molto più saggio tornare a far visita al suo antico paese dove non era più stato oramai da molto tempo. E nel pensiero paragonò la torre della chiesa di casa con quella torre lassù. La sua torre saliva dritta, senza esitazione, assottigliandosi verso l’alto e terminava nel largo tetto dalle tegole rosse, una costruzione terrena - che altro potremmo costruire noi? - che però puntava verso qualcosa di più elevato del coacervo di umili case ed esprimeva un che di più chiaro dell’opaca giornata di lavoro. La torre lassù invece - era l’unica visibile -, la torre di un palazzo civile come si vedeva adesso, forse dell’ala principale del castello, era una costruzione uniforme e tonda, in parte compassionevolmente ricoperta di edera, con delle piccole finestre che ora raggiavano al sole - il che aveva qualcosa di insensato -, terminava in una specie di altana i cui smerli dal disegno incerto, irregolare, distaccato, come tracciato dalla mano timorosa o negligente di un bambino, si sfrangiavano nel cielo azzurro. Era come se un qualche sciagurato ospite della casa, rinchiuso per una buona ragione nella stanza più remota del castello, avesse sfondato il tetto per sporgersi di lassù e mostrarsi al mondo”.

Un narrare, quello dell’autore boemo, crudo ma anche ironico, nel quale la scarna geometria descrittiva non lascia alcuno spazio all’ornamento linguistico ed espressivo, per lasciar parlare solo gli eventi e le reazioni individuali.

“Questo è Kafka: i labirintici percorsi mentali, sì, gli ingarbugliati, inestricabili ingranaggi dell’esistenza, certo, ma anche la gioiosità, l’entusiasmo, la Begeisterung, ovvero presenza di spirito e sovrana ironia che gli diedero l’ardire di percorrerli per farne sfavillare l’enigma; che gli fecero sognare - raccontava l’impareggiabile Pietro Citati - di leggere da cima a fondo ad alta voce tutto d’un fiato l’Education sentimentale di Flaubert e magari di scrivere tutto d’un fiato, senza smettere di interrompersi, Il disperso o Il castello. La funzione fàtica, per dirla alla Jakobson, ‘io ti dico che…’, è talmente forte, il fascino della scrittura talmente potente, lo charme dell’autore talmente intrigante che non si può fare a meno di pendere dalle sue labbra fino alla fine” (Alessandra Iadicicco).

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