La scuola come problema: i disturbi specifici dell’apprendimento

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“Non voglio fare i compiti!”, poi pianti e proteste. Ma dietro al rifiuto categorico di dedicarsi alle attività scolastiche può esserci una difficoltà che il bambino non riesce a gestire. Si potrebbe trattare di un disturbo specifico dell’apprendimento (DSA), una problematica che riguarda l’età evolutiva e di cui si sente sempre più parlare, anche grazie alla maggior consapevolezza che insegnanti e professionisti hanno del disturbo. Per saperne di più, ne parliamo con Chiara Ruscelli, psicologa attiva a Faenza e a Ravenna.

Dottoressa, che cosa si intende per disturbi specifici di apprendimento?

«Si tratta di disturbi neuropsicologici caratterizzati da difficoltà che possono riguardare specifiche aree dell’apprendimento, come la lettura, la scrittura e la matematica, che si possono manifestare a partire dall’età scolare, quando le richieste del contesto scolastico sollecitano l’acquisizione di competenze che nel caso dei disturbi specifici dell’apprendimento non vengono adeguatamente automatizzate».

Come si manifestano?

«Per quanto riguarda la lettura questa può apparire lenta e/o poco accurata rispetto a quanto ci si aspetterebbe per l’età e la scolarità del bambino. Nella scrittura, si differenzia una componente ortografica, riguardante, per esempio la presenza di errori nell’utilizzo delle doppie o dell’acca, e una componente grafomotoria, la calligrafia appare difficilmente leggibile. Per quanto riguarda la matematica, anche qui ci sono quadri eterogenei: possono presentarsi carenze nelle strategie di calcolo, fatica nell’imparare le tabelline o a confrontare diverse quantità numeriche».

Come si arriva alla diagnosi di DSA?

«Di solito è quando il bambino entra alla scuola primaria che ci si può rendere conto delle sue difficoltà nei processi di base dell’apprendimento, anche se alcune avvisaglie si possono avere sin dalle scuole materne, quando si riscontrano fragilità a carico di quei prerequisiti che si dovrebbero assimilare in questa fase; in alcuni casi le difficoltà diventano più evidenti solo nel corso della scuola secondaria di primo o secondo grado. Spesso sono gli insegnanti, altre volte i genitori ad accorgersene. Quando ciò accade, si fa una richiesta di valutazione all’Ausl di competenza, oppure ci si rivolge privatamente a uno psicologo o a un neuropsichiatra infantile, e al SSN solo per la convalida della diagnosi. Durante la valutazione vengono somministrate delle prove in cui le prestazioni che i bambini raggiungono sono confrontate con dei valori normativi per età. Si aspetta la fine della seconda elementare per fare diagnosi di dislessia e disortografia e la fine della terza per quella di discalculia e disgrafia».

E poi, che cosa accade?

«A livello scolastico, per il bambino viene creato il PDP (piano didattico personalizzato) da parte degli insegnanti. Vi sono indicate le misure compensative e dispensative di cui può far uso l’alunno. Mappe concettuali, schemi, formulari, calcolatrici, programmi con correttori ortografici o di sintesi vocali vengono scelti a seconda dell’area di apprendimento compromessa. A differenza di altri disturbi del neurosviluppo, non è prevista una figura di sostegno, perché lo studente non presenta un deficit a livello intellettivo».

Si può ricorrere anche a dei trattamenti specifici?

«Esistono percorsi di potenziamento cognitivo finalizzati a rinforzare le competenze, utilizzando protocolli validati a seconda della severità del disturbo. Si lavora affinché il bambino diventi autonomo e sappia gestire gli strumenti a disposizione».

Come reagiscono i genitori e gli stessi bambini alla diagnosi?

«Negli ultimi anni si è raggiunta una maggiore consapevolezza e le famiglie sono meno spaventate dalla diagnosi, perché ricevono delle indicazioni su come aiutare i propri figli. A volte temono che il loro bambino si possa sentire “diverso”. In questo senso il linguaggio con cui si comunica la diagnosi è importante: il bambino non è dislessico, ma ha la dislessia, un problema che può essere compensato, come le lenti sopperiscono la miopia. La reazione della famiglia agisce anche sulla percezione del bambino. Quelle che attivano le risorse a disposizione per supportarlo rappresentano un fattore protettivo per il figlio. In alcuni casi, gli studenti arrivano ad avere problemi di autostima, a sviluppare ansia scolastica, con una perdita di benessere generale. In queste situazioni c’è bisogno di un sostegno psicologico».

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