La recensione: "L'Alsìr" di Iacopo Gardelli, esordio eccellente

Che quella del trentatreenne ravennate Iacopo Gardelli fosse una penna felice lo si era già ampiamente intuito dagli affondi sulle questioni teatrali (nel 2018 ha vinto il premio nazionale di critica teatrale Lettera 22 come miglior critico under 30), dai suoi vari testi teatrali e da alcuni saggi. Ora però L’Alsìr, il suo primo romanzo, uscito qualche mese fa per i tipi di Fernandel, lo colloca prepotentemente sulla mappa della scrittura nazionale.

L’Alsìr è, come recita il sottotitolo, un «romanzo balneare», ma un balneare da intendere come luogo – le vicende dei protagonisti si svolgono in un bagno, inventato, di Marina di Ravenna, L’Alsìr appunto – e non certo come atteggiamento, per quanto la levità non manchi affatto nelle duecento e passa pagine di questo debutto.

Il racconto inizia nell’estate del 1994, quando le famiglie Montanari e Malagola diventano per caso vicine d’ombrellone e iniziano la loro conoscenza. I romagnoli Montanari, Ivan e Caterina, portuale lui e maestra d’asilo lei, con appresso il figlioletto Guido, sono sanguigni e grandi lavoratori; i milanesi Malagola, Berto e Teresa, con i figli Alessandro ed Elena, lui noto primario di una clinica, lei incastrata nel ruolo (stretto) di mater familias con mille rimpianti, vengono da un mondo completamente diverso, fatto di privilegi, amore per la cultura, eleganza. L’anno di partenza della narrazione, il ’94, non è certo casuale, perché dà modo di vivere la progressiva disillusione di Ivan, gruista sindacalizzato al porto, nei confronti della politica, con la fine della prima repubblica e l’inizio del berlusconismo; così come non è casuale il 2012, anno di chiusura del romanzo, con l’Italia ormai in balia del default economico del 2008.

I veri protagonisti del libro sono però i figli delle due famiglie, soprattutto Guido, sensibile e riservato, il cui innamoramento nel corso delle estati nei confronti della più giovane e ribelle Elena è descritto progressivamente da Gardelli – che vanta una laurea in Filosofia alla Statale di Milano – con una perizia e un’empatia che definire proustiane non è affatto esagerato.

E naturalmente protagonista è L’Alsìr (parola che in dialetto romagnolo significa agio, opportunità, ma anche tempo), lo stabilimento balneare a conduzione famigliare (e, se siete romagnoli non millennial, è impossibile che non vi siate imbattuti in due gestori simili a Jorio e Vanda), teatro di tutte le vicende e luogo di approdo di tutta una serie di personaggi minori – al cinema li definiremmo caratteristi – splendidamente delineati. È qui che vediamo Guido, Elena e Alessandro diventare adulti, tra piccole avventure bambinesche, passioni, scazzi, prese di coscienza, delusioni, il tutto contrappuntato dalla strana amicizia tra i genitori, dalla quale affiorano speranze disilluse, rabbia, invidia, ma anche sincero affetto. Ivan vorrebbe considerare Berto, ricco e brillante, il nemico, il “capitalista” da disprezzare, ma non può, perché Berto non è affatto una brutta persona, anzi forse, tra i due, è quello che ha capito che dalla politica non ci può aspettare nulla di buono. Proprio questa scelta, ossia rifuggire il manicheismo, permette a Gardelli di mettere su pagina personaggi molto credibili, sfaccettati, complessi, veri, personaggi da cui alla fine è difficile staccarsi, come avviene solo nei grandi romanzi. E poi c’è il coup de théâtre, la creazione dell’autore di una serie infinita di neologismi, quasi una lingua «inedita e meticcia» (come lui stesso la definisce), frutto tra l’altro di un’acribica ricerca linguistica, che fonde in maniera quasi onomatopeica termini dialettali italianizzati, ma anche espressioni provenienti da altre regioni. Ecco allora che ci imbattiamo in parole come sgalembro, aggulpata, indormento, strabigo, smalvire, gnorgne, paciugo, indarlito, limpata e così via, parole il cui significato, anche da romagnolo, ho evinto quasi sempre dal contesto o per intuito, ma che rendono la narrazione un divertente giardino segreto da scoprire pagina dopo pagina.

Che dire, credo che a Iacopo Gardelli si possa solo dire «buona la prima».

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