La recensione: "Don Chisciotte ad ardere" delle Albe

Bruttezza. Bruttezza. Bruttezza. Da questo, siamo circondati, sempre e sempre più. Poi però arriva il teatro e stiamo meglio, veniamo curati, un poco. Finché arriva il Teatro delle Albe, e allora ecco che veniamo addirittura salvati, la nostra vita è letteralmente messa al sicuro, protetta, lenita. Don Chisciotte ad ardere “opera in fieri 2023” delle Albe (coprodotto da Ravenna festival) è un atto d’amore completo in cui il teatro e il pubblico s’incontrano e si stupiscono di quello che può nascere dall’esperienza scenica.

Come suggerisce il titolo, quella vista al festival è la prima anta di un progetto triennale (2023-2025) che Ermanna Montanari e Marco Martinelli dedicano all’opera-mondo di Cervantes, ed è, con buona evidenza, un lavoro eccezionale senza mezzi termini, che inaugura il Cantiere Malagola – sull’eredità del Cantiere Dante 2017-2022 –, ancora una volta insieme a centinaia di cittadini e cittadine, sviluppandosi negli ameni spazi dell'omonimo Palazzo Malagola. È al balcone di questo che «la maga che imbroglia i fili» Hermanita (Montanari) accoglie noi erranti, il pubblico, incarnando un prologo fatto di una lingua meticciata (italiano, spagnolo, dialetto romagnolo, arabo, grammelot) che sembra appartenerci da sempre, un prologo che qua e là si veste da invettiva che Montanari sciorina con le infinite possibilità della sua estensione espressiva. Poi le porte si aprono e ad accogliere gli erranti c’è Marcus (Martinelli), «il mago che insegue i fili», che ci conduce all’interno di quello che è stato davvero trasformato in un “palazzo incantato” dagli scenografi e dai tecnici delle Albe.

L’androne è il luogo dei sogni, da cui parte un caleidoscopico percorso tra la stanza-campo-di-grano, quella del cibo impossibile (dove una famiglia seduta a tavola sta mangiando il brodo con il coltello accanto a tre galline), quella dello specchio magico, poi la stanza del lavoro abbandonato, l’accampamento di soldati, su su fino alla soffitta dove le pareti sono affrescate da disegni in bianco e nero, e a terra a osservarli c’è una sirena. Quando, molte stanze dopo, il percorso nel labirinto dei sogni è finito, la guida fa entrare gli erranti nel cortile.

Abbiamo varcato il sottile margine tra sogno e vita, l’incerta linea di confine che separa, intreccia, interseca la realtà e l’irrealtà. Come diceva Artaud, si tratta di «dare alle parole all’incirca l’importanza che hanno nei sogni».

Ma siamo solo all’inizio. Nel cortile la facciata interna del palazzo ci mostra un’altra identità: siamo in una locanda (quella dove il Don Chisciotte di Cervantes, che la scambia per un «nobile castello», viene nominato cavaliere dall’oste), circondati dai “cori” di cittadini e cittadine e dalla musica live della band Leda (davvero notevole, tra l’altro). Qui i due ambigui maghi Hermanita e Marcus fondono passato e presente, finzione e storia, ed essendo in grado «ancora di evocare fantasmi» fanno apparire dalla “trash room” della locanda le tre figure di Don Chisciotte (Roberto Magnani), Dulcinea (Laura Redaelli) e Sancio Panza (Alessandro Argnani), anch’esse sospese e oscillanti tra i personaggi che sono e gli attori che li interpretano (che guarda caso si chiamano Roberto del Castillo, Laura Ross de la Briansa e Aleandro Argnàn de Puerto Foras). Un riferimento qui può essere la Trilogia degli scarrozzanti di Giovanni Testori (di cui ricorre il centenario della nascita), ma personalmente il ricordo va all’Amleto “punk” di Eimuntas Nekrosius (costumi e scenografie naturali pazzesche, atmosfere oniriche) visto al Franco Parenti di Milano nel 1997, in cui il rapporto del regista con Shakespeare – e in senso lato con i “classici” – appare pervaso da un atteggiamento bivalente: di grande fedeltà ma con la necessità di “tradirlo” (ad esempio con la presenza di attori non professionisti). Ovviamente Nekrosius non era certo il primo a smontare e rimontare un classico o ad affidarsi ad attori non professionisti, ma diciamo che quell’Amleto era, per me, davvero la quintessenza di questo tipo di operazioni, e si lega all’individuazione di alcuni temi cardine del Don Chisciotte delle Albe, ossia la valenza sociale e l’amore profondo e salvifico per i maestri del passato.

Il cavaliere errante della Mancia, simbolo irriducibile di sognatore che non si rassegna alle ingiustizie di un mondo retto sull’ipocrisia e il sopruso, continua «ad “ardere”, pur se da tutti considerato folle, patetico, ridicolo come gli attori che tentano di rappresentare le sue avventure, anch’essi goffi e stonati. Man mano che l’opera procede, il solitario hidalgo spagnolo e chi lo accompagna appariranno più saggi di quella maggioranza che li contrasta e che pretende di avere il monopolio della “ragione”», come dicono gli stessi Montanari e Martinelli.

In questo Don Chisciotte ad ardere le Albe riversano i segni estetici, politici, poetici di tanti lavori passati, e alla fine uno degli aspetti che colpisce maggiormente (e qui sto parlando della valenza sociale del progetto) è il coinvolgimento di centinaia di cittadini e cittadine (ravennati e non), che si rivelano il cuore pulsante dell’intera questione, con un entusiasmo, una dolcezza, una bravura, un’abnegazione e una ferocia che lasciano stupefatti. E il pubblico sente l’energia di queste persone possedute da Dioniso, come una specie di animale.

Questo Don Chisciotte è refrattario alla formalizzazione e più lo ripensi e lo lasci lavorare dentro di te, più cresce, ti parla, ti mostra altro, fino a divenire praticamente inafferrabile da qualsiasi tentativo di esaustivo racconto verbale. Questo Don Chisciotte poteva solo essere visto e vissuto.

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui