«La scuola è ridotta ad azienda e senza valori andrà alla deriva». Laureata all’Ateneo bolognese in lettere, con tesi in storia dell’arte bizantina, la 65enne Roberta Piovaccari è divenuta insegnante nel 1985 per entrare di ruolo nel 1992 all’istituto professionale Einaudi dove è rimasta, come prof di lettere, fino a quest’anno scolastico che ha sancito il pensionamento. Ma dopo una vita in cattedra cosa pensa della scuola di oggi? «Di recente – esordisce Piovaccari – ho riletto i giudizi scritti per maturandi ora 52enni con cui sono ancora in contatto. Era importante predisporre un giudizio per ognuno, mentre ora ci limitiamo a redigere il documento del 15 maggio dove ogni docente parla della classe in generale». Risultato? «Tutto è ridotto a numeri».
Perché?
«Da un lato la scuola si è trasformata in azienda, dall’altro si è spezzato il patto con la famiglia. I genitori delegano l’educazione dei figli ma vogliono dettare le regole senza fiducia, facendo saltare rispetto dei ruoli e serenità del dialogo. L’aspetto peggiore è il timore dei prof di essere denunciati per qualunque cosa. A sconvolgere sono le lamentele per i compiti e i ragazzi portati in vacanza nel pieno dell’anno scolastico. Ormai fioccano minacce non solo in caso di mancata ammissione ma anche per un’insufficienza. Non andiamo nella stessa direzione per quanto riguarda l’educazione dei ragazzi. Quanto a me, ho sempre dato alle classi l’opportunità di rimediare fino all’estremo ma in tanti lasciano perdere certe materie per poi recuperarle in estate. Un altro nodo? Lo studio non è più sentito come un dovere».
La società esalta il mondo reale a scapito dello studio?
«Ha preso il sopravvento una scuola che prepara i ragazzi a un mestiere tant’è che lo stage è previsto anche nei licei. A far la parte del leone sono le discipline pratiche o legate a informatica e tecnologia».
Come si è arrivati allo scontro con i genitori?
«Grazie a un’annosa campagna contro gli insegnanti condotta su più fronti. Nessuno di noi può lamentarsi senza sentirsi rimproverare con frasi del tipo “Mica lavori in miniera”. Imperversano leggende metropolitane su ferie lunghe tre mesi che non tengono presenti esami di Stato fuori o dentro la nostra sede, riunioni e esami per il recupero dei debiti entro fine agosto. La narrazione è che lavoriamo solo tre ore a mattina mentre c’è ben altro».
Cioè?
«Il lavoro sommerso, dalla correzione dei compiti alla preparazione dei progetti passando per le varie funzioni come il coordinamento di classe. Senza dimenticare il ricevimento settimanale che più volte all’anno diventa pomeridiano. Il tutto senza straordinari ma in base a compensi forfettari che non tengono presente l’enorme numero di ore svolte».
Chi è il coordinatore di classe?
«Un insegnante con tantissime funzioni tra cui la gestione del rapporto con famiglie spesso latitanti. Spetta a lui anche la telefonata che segnala la bocciatura, ma sarebbe meglio tornare al telegramma, perché le famiglie si scagliano contro chi è solo portavoce e non può ribattere alle offese per scongiurare denunce».
Per alcuni l’insegnamento è l’ultima spiaggia?
«Credo che siano scomparse le grandi passioni. E questa è la tragedia della nostra epoca, ma non critico chi cerca un lavoro per sostenere la famiglia».
Altri scogli?
«La letteratura relegata ai margini, sebbene offra spunti per affrontare grandi temi: la bellezza, la lotta tra il bene e il male e realtà speculari come morte e vita. Leggere brani tratti da testi della letteratura postunitaria, come “Cuore” di Edmondo De Amicis sorprende sempre le nuove generazioni mostrando valori dimenticati».
A scuola hanno fatto irruzione le armi. C’è di meglio dei metal detector?
«Si può disarmare puntando sulle discipline umanistiche, aumentando le ore dello psicologo e garantendo la presenza di infermiere e operatore socio sanitario. E’ bene lavorare sui grandi temi di educazione civica. Programma e scadenze sono importanti ma quando c’era bisogno di parlare ho sempre chiuso i libri. Niente conta come il giovane che hai davanti. Amo le sfide, avevo bisogno di ragazzi che magari facevano arrabbiare ma erano curiosi. Mai voluto mummie tra i banchi».
In Veneto sono stati promossi allievi che hanno sparato a una docente con una pistola a pallini.
«Non è un bel segnale: serviva il 5 in condotta con relativa bocciatura. Come categoria talvolta si sbaglia per evitar problemi o considerando positivo il buonismo mentre passa il messaggio che tutto è dovuto derubricando gravi gesti a bravate. La gioventù non ha consapevolezza dei limiti né che i docenti sono pubblici ufficiali».
Tornasse indietro, farebbe la stessa scelta?
«Varcherei nuovamente la soglia di un’aula anche se il tempo che passa toglie le forze e leggere i temi non dona il piacere di una volta, perché quando approdano alle superiori i ragazzi non si sono esercitati granché a scrivere».