La grande e la piccola canaglia del mercato di fine Ottocento

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Il mercato di fine Ottocento è lo spaccato veritiero e ruspante del costume di una società: un microcosmo carico di storia, cultura, folclore... umanità. Aggirarsi tra le bancarelle e osservare la gente che scruta la merce, che contratta, che gesticola, litiga, saluta, sorride … abitua a “stare al mondo”, ovvero a capire gli altri e soprattutto a riconoscere le persone oneste dagli imbroglioni. Sì, perché il mercato, tra le tante cose, è anche una grande “piazza dei miracoli”: c’è chi li fa e chi li subisce. La mattinata è sempre insaporita di imprevisti e spesso alcuni di questi raggiungono la risonanza della cronaca giornalistica, se non altro per essere di monito ai lettori, per invitarli ad essere guardinghi, a non fidarsi troppo di chi non si conosce.

Il periodico Italia, per esempio, si diverte ad illustrare settimanalmente le «mariuolerie» di mercato, alcune addirittura “geniali”, che ci piace riprendere. Eccone una, raccontata il 26 settembre 1883, che fa riferimento a un «bellimbusto dai modi raffinati e gentili». Questi, «spacciandosi per orologiajo», piantava le sue tende nel mercatino rionale di Bellaria e con parlantina da galantuomo e prezzi concorrenziali riusciva a convincere una decina di persone ad affidare alle sue cure i loro cronometri. Una volta in possesso di tanta mercanzia, «il matricolato mariuolo» diventava uccel di bosco.

Un altro emblematico episodio, dove la furbizia del truffaldino si coniuga con la credulità e la dabbenaggine del cliente, si verificava nelle ore antimeridiane di mercoledì 13 agosto 1884. La vittima, un certo Giuseppe Biondi, «contadino di Gatteo», si era recata in piazza Giulio Cesare «per vendervi due rotoli di tela». Non sappiamo per quale motivo il villico si fosse improvvisato commerciante – Italia, che ci illustra la vicenda il 16-17 agosto 1884, non ce lo dice –, sta di fatto che dopo aver fissato il prezzo della merce con «uno sconosciuto» veniva da questi invitato a seguirlo fino a casa con il pretesto di andare a prendere il denaro. «Giunti al portone del palazzo Gioia», il lestofante si faceva consegnare la tela convincendo l’ingenuo ad aspettarlo da basso. «Il contadino vi pensò un momento, poi annuì dicendo fra sé e sé: da qui deve ad ogni modo sempre ripassare». Ma dopo alcuni minuti di attesa il «povero semplicione» si rese conto di essere stato buggerato: il palazzo aveva un’altra uscita sulla via Gambalunga.

Un caso analogo a quello capitato al rurale di Gatteo accade nel luglio del 1886. Una “signora” sui quarant’anni si presentava, in una movimentata giornata di mercato, nella oreficeria Brioli in corso d’Augusto dicendo di aver avuto l’incarico dalla moglie di un noto e stimato professionista, impossibilitata a muoversi, di portarle «due paja di boccoli» per provarli e scegliere quello che meglio le si sarebbe adattato. L’orefice, non conoscendo la cliente, pretese come cautela «almeno un biglietto della compratrice». Di lì a poco la donna si ripresentava dal Brioli «con uno scritto nel quale figurava il nome e il cognome del marito della mandante». A questo punto l’orefice consegnava alla sconosciuta, anziché i due richiesti, «un assortimento di sei paja di boccoli». Poi, dato che fidarsi è bene ma non fidarsi è ancora meglio, per precauzione faceva accompagnare la “signora” dal garzone di negozio. Ma una volta arrivati a destinazione la mariuola con un persuasivo pretesto – sostiene Italia il 24-25 luglio 1886 – abbandonava il giovinetto sparendo dalla sua vista.

Insieme con i “grandi” truffatori, nel mercato bazzica anche la «piccola canaglia». Così è chiamata quella combriccola di «quindici o venti ragazzacci dai dieci ai dodici anni» che si muove tra i cesti e le bancarelle. Quando questi monelli sono di turno «le contadine non possono salvare i loro panieri»: allungano le mani e, veloci come la polvere, se la danno a gambe. Il loro quartiere generale, dove vanno a dividere il bottino delle scorribande – riporta Italia il 14-15 novembre 1885 – è la piazzetta dei Teatini.

Le ruberie, da parte di cricche di teppisti, rappresentano un avvilente fenomeno endogeno del mercato contro il quale non c’è alcun rimedio: sono una “tassa” che il commerciante deve mettere in conto. C’è da dire, tuttavia, che ogni tanto, per l’intervento dei carabinieri, qualche mascalzoncello ci lascia le penne o, come nel caso documentato da L’Ausa il 13 maggio 1922, addirittura le dita. Scrive il periodico: «Il giorno 8 corrente, verso le ore 10 antimeridiane in Piazza Giulio Cesare il venditore ambulante di porchetta, Magnanelli Italo, feriva col coltello del mestiere il giovanetto Bianchini Giuseppe di anni 15, così, accidentalmente, non coll’intenzione di ferire, ma per liberarsi dall’importuno monello che gironzolava intorno al suo banco rubacchiando qualche pezzetto saporito di carne». «Il feritore – riferisce il settimanale – sarà tratto in arresto; la ferita del Bianchini non risulterà grave».

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