L'ultima cosa che le donne dicono, a Imola c'è Concita De Gregorio

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Le storie delle donne sono il suo pane quotidiano. Tante ne ha fatte parlare sui giornali per cui ha scritto e scrive Concita De Gregorio, giornalista, direttrice di giornali, conduttrice di trasmissioni di approfondimento in radio e in tv. Ma il “posto nel mondo” che sente appartenerle più di altri è proprio quello dove gli imolesi da questa sera la conosceranno di persona: su un palcoscenico. Quello che non cambia è lo strumento attraverso il quale fare conoscenza: le parole, anche in questo caso prima scritte, ma che qui diventano voce, e musica. Un'ultima cosa. Cinque invettive, sette donne e un funerale, coprodotto da Teatri di Bari – Rodrigo e dalla stessa autrice, è lo spettacolo di Concita De Gregorio, che sarà protagonista in scena insieme alla cantautrice Erica Mou, per la regia di Teresa Ludovico, da questa sera al teatro Ebe Stignani di Imola, ultimo della stagione di prosa 2022 che, dopo un debutto in prova e un festival pre Covid, da Imola parte per la sua prima vera e propria tourneé. Cinque donne che attraverso l’autrice stessa si prendono l’ultima parola.

Dora Maar conosciuta per essere stata musa di Picasso, Amelia Rosselli figlia dell’antifascista Carlo, le artiste e poete Carol Rama, Maria Lai e Lisetta Carmi: chi sono state per lei e perché ha deciso di dare a loro la parola per questo commiato che diventa teatro?

«Il mio rapporto con loro arriva da lontanissimo. Sono donne che mi hanno accompagnato in tutta la mia storia personale e professionale. Io vengo da una formazione musicale e teatrale, poi da ragazza ho cominciato a scrivere per un giornale e quello ha preso poi il sopravvento. Ma nella mia mente quello che faccio nella vita, e da cui attingo energia e mi dà la sensazione di essere nel mio posto, è suonare e scrivere per il teatro, il giornalismo è quello che faccio per lavoro. Tutte le donne che racconto le ho incontrate di persona in momenti in cui non ero consapevole del loro calibro. Solo con Lisetta Carmi, che è morta quest’anno mentre lo spettacolo è precedente, ho trascorso molti mesi e abbiamo scritto insieme il pezzo che la riguarda. Però incrociarle mi ha come lasciato un tocco e mi sono sentita di dover saldare un debito andando a ricercare ciò che avevo incontrato senza vedere, riprendere la loro storia, ridare loro voce e in qualche modo vendicarle».

Sono quindi donne arrabbiate, deluse, amareggiate?

«Dicendo vendicarle non intendo un atto aggressivo, ma rimettere in ordine la verità delle cose secondo loro, attribuire loro l’identità, ciò che sono secondo loro stesse, e non più la reputazione, che è ciò che gli altri hanno detto di loro. Ecco che nel momento del congedo si alzano in piedi e possono parlare a tutte le persone della loro vita restituendo la verità, dicendo chi sono state, pronunciando l’ultima cosa che hanno da dire. Non direi che sono arrabbiate, le loro non sono invettive tragiche, anzi alcune faranno anche ridere, alcune sono gentilissime e sagge. Queste cinque storie sono parte di un progetto più ampio che uscirà in autunno per Feltrinelli dove le voci di donne morte che parlano da vive diventeranno almeno una dozzina».

Donne speciali, di cui però poco sappiamo in realtà, come spesso accade nella storia delle donne.

«Sono tutte donne che non hanno avuto il loro posto riconosciuto nella storia, sono note ma perché sono state considerate per lo più come appendici di qualcun altro: la musa di Picasso, la figlia, sorella, amante di qualcuno, l’artista promossa da... Sono donne in genere solitarie, considerate irregolari, e per una donna essere considerata “irregolare” comporta una difficoltà in più, messe ai margini a causa di questo. Invece erano tutte donne con una forte luce propria. Magari qualcuno si aspetta, per la mia reputazione, che parli di politica, di diritti, di donne in maniera più convenzionale, ma quella che va in scena è una parola che non è stata scritta per le cronache e ha un passo e un andamento per niente giornalistico».

Dalla cronaca però immancabilmente per una giornalista è quasi naturale attingere, e anche nei suoi libri le storie di donne sono tante.

«Ad esempio “Mi sa che fuori è primavera”, che è nato come un libro ed è diventato un testo per il teatro, ed è tuttora in scena in Francia e in Svezia, è la storia vera di una donna a cui il marito strappò le figlie che non si sono più ritrovate. La storia dalla cronaca diventa letteratura quando si estrae una voce monologante, nitida, che può parlare di qualcosa che riguarda tutti e sposta i fatti dal piano della realtà al piano della verità».

Scegliere per lo spettacolo “Un’ultima cosa”, proprio il momento della morte, di un funerale, per dare voce alle protagoniste non è stata solo una scelta “scenica”.

«All’inizio dello spettacolo spiego che mio padre, che è morto molto giovane, mi chiese di scrivere con lui il suo congedo quando capì che la sua vita non sarebbe stata lunga. Non sono riuscita a farlo per lui, troppo difficile, ci sono riuscita con Lisetta Carmi. Io vengo dalla cultura di lingua spagnola e ho vissuto lì e in America Latina, in questa cultura, come nel sud Italia, i funerali sono riti anche festosi dove si mangia, si suona e ognuno va per raccontare un pezzo di storia di chi non c’è più. Mi padre lo sapeva perciò me lo chiese, voleva esserci. Aveva ragione lui, che quella era la situazione in cui è possibile dire l’ultima cosa che ci resta da dire e così mi sono esercitata a farlo».

Lei ha fatto molta televisione, è costantemente sulla scena, ma dalla scrittura al palcoscenico resta comunque un bel salto. Come si trova in questa situazione?

«Non sono un’attrice e non ho questa ambizione. Però ho letto spesso ad alta voce in reading o in letture sceniche quello che ho scritto, e la mia voce sonora restituisce al testo il senso che io gli avevo voluto dare, però non avevo mai fatto uno spettacolo tutto intero. In scena sono però solo la metà di una coppia, l’altra metà è Erica Mou che con la sua voce pura, accordata naturalmente, irrompe in scena senza strumenti e ha recuperato delle ninne nanne popolari, scritto canzoni appositamente in dialetto pugliese; il dialetto è la prima lingua di quando veniamo al mondo. Le nostre due presenze sono un po’ i due momenti della vita che si toccano, lei rappresenta l’ingresso della vita e io rappresento il bilancio, l’uscita di scena. Due momenti che si guardano sempre».

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