Intervista a Vanessa Gravina, con "Zio Vanja" a Russi e Faenza

Arriva in Romagna lo Zio Vanja dello scrittore e drammaturgo russo Anton Cechov (1860- 1904) prodotto dal Centro di Produzione Teatrale Pistoiese e diretto da Roberto Valerio. Martedì 15 marzo (ore 20.45) sarà al teatro Comunale di Russi, poi dal 16 al 18 marzo verrà ospitato dal teatro Masini di Faenza (ore 21). Sul palco un cast d’eccezione composto da Giuseppe Cederna, Vanessa Gravina, Pietro Bontempo, Mimosa Campironi, Massimo Grigò, Alberto Mancioppi, Elisabetta Piccolomini.

In una tenuta di campagna c’è una tavola apparecchiata per il tè sotto a un vecchio pioppo. Poco più in là dondola un’altalena. L’atmosfera tranquilla e serena non rispecchia il tumulto disordinato dei cuori. La vita quotidiana e monotona che Vanja, sua nipote Sonja, l’anziana maman Marija, Telegin e il dottor Astrov conducono in quella residenza di proprietà del professor Serebrjakov viene stravolta dall’arrivo dello stesso illustre accademico e dalla sua bellissima seconda moglie Elena.

Gravina, cosa rappresenta portare in scena questo testo oggi?

«Sono molto emozionata di portare in scena questo testo perché di grande ed evidente attualità – spiega l’attrice –. L’opera racconta l’anima sovietica e credo sia giusto riscattare l’identità di un popolo che sta anch’esso subendo la gravità della guerra. Penso a tutte le persone innocenti che loro malgrado devono fare i conti con la durezza del conflitto, come le madri che vedono i loro figli andare a combattere. Più volte durante lo spettacolo cito luoghi che ora sono teatro di guerra ed è per me sconvolgente. Nell’opera di Cechov emerge l’identità di un popolo caratterizzato da appartenenza pura e verità assoluta».

In che modo l’autore tratteggia i personaggi?

«In questa commedia tragica Cechov ha a che fare con le loro anime, ne fa una fotografia diretta e priva di qualsiasi filtro politico, diplomatico o di perbenismo. Lontane da tutto queste le figure sono senza maschera e si ha come un’annunciazione, una verità disarmante. Per via della contemporaneità abbiamo una grande responsabilità nel portare in scena questo testo. A un certo punto dico che gli uomini non hanno pietà per i boschi, né per le donne e che in loro risiede il demone della distruzione. L’autore è elementare ma dice tutto. Questo popolo ha gettato basi culturali straordinarie in ogni ambito ed è giusto riconoscere l’innocenza di chi è rimasto coinvolto nel conflitto senza volerlo. Fare teatro significa ancora svegliare le coscienze e raccontare la grandezza dell’umanità».

La regia di Roberto Valerio fa oscillare i personaggi tra clownerie e malinconia.

«Sì, la sua cifra stilistica è quella di lavorare molto sui corpi, su un teatro fisico. Il mio personaggio di Elena è come una donna che si muove al rallentatore e questa sua lentezza risulta sensuale e così alimenta la morbosità degli uomini che le gravitano attorno, dal marito a Vanja, passando per il dottor Astrov. Sono tutti personaggi che non riescono a spiccare il volo e che vorrebbero essere altro. Nel momento in cui riesci a entrare nella testa dell’autore, non lo tradisci e lui non ti abbandona».


Di recente avete portato in scena “Tartufo” di Molière sempre insieme a Roberto Valerio e Giuseppe Cederna.

«Sì, è stato lo spettacolo con cui, dopo le chiusure causate dalla pandemia, siamo tornati a riempire i teatri ed è stato folgorante. Ci auguriamo di fare altrettanto con Zio Vanja».

Cosa si aspetta quindi dal pubblico romagnolo?

«Mi aspetto, come ogni volta che ci sono venuta (penso a Le serve di Genet con Anna Bonaiuto e Manuela Mandracchia), teatri meravigliosi con gente piena di vita».

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