Imola, Giovanni Mosciatti: "Sono il vescovo che mette su le band"

Archivio

Monsignor Giovanni Mosciatti veniva ordinato vescovo di Imola e Lugo esattamente tre anni fa. Arrivava dalle Marche e il suo piglio gioioso e positivo irruppe nella diocesi a suon di musica. Alla ieraticità della cerimonia per la sua ordinazione in San Cassiano fece infatti seguito una festa dove a suonare sul palco era proprio lui. Polistrumentista e amante della canzone italiana, il vescovo oggi 64enne, ha vissuto un triennio intenso, che ripercorriamo con lui.

A luglio di tre anni la sua consacrazione a vescovo fece subito scalpore: la messa con maxi schermo, poi la festa con lei star della serata alla tromba, intonò subito Romagna mia. Il giorno dopo un giro di pista in autodromo al volante di una Ferrari. Insomma, per i fedeli imolesi fu un piccolo shock, se ne accorse vero?

«Tutto questo non era strano per me. Spesso avevo animato feste per persone che diventavano sacerdoti o anche vescovi. Allora mi sono detto: l'ho fatto per tanti perché non farlo anche per me? Poi devo dire che è stato merito anche dei ragazzi ai quali avevo fatto scuola di musica nella mia parrocchia. Loro mi proposero di suonare, e quando ho visto il prato della Rocca ho pensato che fosse una bella occasione».

Non è poi stata la sua unica performance musicale...

«Quasi subito ho scoperto l'esistenza di “Imola in musica” e con i ragazzi di varie parrocchie abbiamo pensato di mettere in piedi un programma di canzoni da presentare alla manifestazione. Il sindaco mi ha già chiesto se facciamo qualcosa anche per la prossima edizione, ci stiamo pensando».

Come nasce la sua passione per la musica e quanto le è utile nel suo lavoro quotidiano?

«Suono da quando avevo 15 anni e stavo suonando la sera in cui, a 20 anni, decisi che avrei fatto il prete. Se suoni, la musica entra a far parte di te ed è un mezzo straordinario per comunicare, specie con i ragazzi che stanno molto più in ascolto. Le canzoni spesso lanciano messaggi significativi e rendono più facile esprimere alcune cose. Io ho imparato a suonare nella banda cittadina di Matelica, il mio paese, suonavo tutto quello che capitava, la tromba, la chitarra... L'ho fatto per alcuni anni, poi ho conosciuto Comunione e liberazione e la musica era un modo per fare belle feste. Mettemmo su un gruppo: eravamo in 12 ci chiamavamo Orchestra popolare marchigiana. Da sacerdote ho poi avviato una scuola di chitarra in parrocchia. Ci sono i preti bravi nello sport che avviano scuole di calcio, io metto su le band».

È stato evidente fin dal suo arrivo che le sta a cuore il mondo giovanile. Come sono i giovani che ha trovato a Imola, frequentano le parrocchie?

«Ho trovato giovani molto disponibili, qui c'è un associazionismo prolifico e un modo di stare insieme che mi ha colpito, vengo da una realtà più chiusa da questo punto di vista. Certamente la pandemia ha allentato questa frequenza, c'è stato un momento di grande chiusura e paura, ma adesso pian piano si sta riprendendo, ci vuole molto coraggio perché soprattutto i ragazzi sono stati molto colpiti da quanto è successo».

Qual è stato il momento più duro secondo lei durante la pandemia?

«La chiusura delle chiese, per fortuna è durata pochissimo, grazie alle mascherine che ci hanno aiutato a vivere in maggiore sicurezza. Ora questa pandemia non ci ha ancora lasciati, ma c’è bisogno di viverla con più libertà. La gente ha necessità di parlare, confrontarsi. A lungo abbiamo comunicato attraverso i computer, ti collegavi con l'America e con l'Africa e incontravi persone lontanissime, abbiamo imparato anche questo, ma camminare insieme, vivere un gesto comune, quello ci serve».

Come hanno reagito gli imolesi? E che strascichi ha lasciato la pandemia nella società?

«Ho visto una grande solidarietà, poi è arrivata una fase come di pesantezza fatica quando sembrava che non se ne potesse uscire. Anche oggi viviamo appesantiti, in più si è aggiunta la guerra e molti si sono sentiti come sotto a una cappa che non fa sperare. Ma dobbiamo pensare che è dentro le difficoltà che occorre alzare lo sguardo e a sperare, specie noi cristiani dobbiamo essere testimoni di qualcosa di più grande».

Cosa ha capito di questa città e quale pensa che sia il suo punto debole, e quello invece di forza?

«Un punto debole, come accade anche altrove, potrebbe essere quello di fare come si è sempre fatto, come dice il Papa: di non avere a volte il coraggio di fare passi nuovi o sperimentare. Però il mondo cambia e c'è bisogno di risposte nuove. L'aspetto positivo, che certamente predomina, è quello di una grande solidarietà, di voglia di cooperare, di essere insieme di scattare davanti al bisogno. Poi ancora una volta il gusto di stare insieme, faccio un esempio, qualcosa che non avevo visto altrove: qui le parrocchie hanno praticamente tutte al loro interno una cucina professionale, è un buon segno!»

Fra gli imolesi che ha conosciuto c'è anche il cardinale Mauro Gambetti, che a ottobre scorso ha aperto la Porta santa di San Cassiano per dare avvio all’anno giubilare tutto imolese nel 750° anno di dedicazione della cattedrale al santo patrono della città. Come è stato l’incontro?

«L'incontro è stato un po' buffo. Sapevo di lui ed ero andato a trovarlo ad Assisi, e quando abbiamo saputo che sarebbe stato consacrato cardinale mi ha chiesto se potevo essere uno dei tre vescovi concelebranti. Da lì è nata una grande amicizia e ci siamo sentiti spesso. Mi colpisce la sua umiltà e umanità e il desiderio di cambiamento per cui si sta dando molto da fare. Prego che il Signore lo aiuti».

Per Imola cosa sta rappresentando questo anno giubilare?

«Quando due anni fa mi dissero dei 750 anni esatti dell'intitolazione della cattedrale e tante coincidenze di date, abbiamo fatto domanda al Papa e ci è arrivata questa grazia dell'anno giubilare che abbiamo voluto considerare come anno di ripresa. Intanto ne approfittiamo per restaurare la cattedrale, che è la casa di tutti, che aveva assoluto bisogno di manutenzione alla facciata, al tetto e alla cripta, di questo passo sarà pronta entro l'anno. Ma non desideriamo solo un restauro delle mura, bensì proprio una rinascita della vita, una ripresa della coscienza del nostro essere Chiesa. Il 23 ottobre a chiudere l’anno sarà il cardinale Matteo Zuppi, ma non finirà qui, si apriranno tante altre iniziative».

Come vede il suo futuro, le piacerebbe restare a Imola a lungo o magari esplorare ancora altre mete?

«La cosa interessante della vita è questa: è sempre una sorpresa. Non mi aspettavo di fare tante e cose e nemmeno di venire a Imola. Il futuro è nelle mani di Dio, io vivo con più intensità possibile questo presente. C'è tanto da fare qui. A volte mi chiedo come fanno vescovi con diocesi tanto più grandi, ma poi penso che qui è perfetto perché c’è la possibilità concreta di stare vicino alle gente e ai preti».

A proposito, come vanno le vocazioni sul territorio?

«Oggi nella nostra diocesi ci sono un'ottantina di sacerdoti e solo la metà hanno sotto i 70 anni. Quindi l'età media è alta. Ma ci sono vocazioni e percorsi avviati per alcuni giovani e tanti ragazzi e ragazze che chiedono di parlare, fanno e si fanno domande. Insomma, siamo più fortunati che in altre diocesi. Questo dice che c'è una storia di Chiesa importante a Imola, il Signore ci vuole proprio bene».

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui