Il reporter lughese Lorenzo Tugnoli vince il premio "Spot news"

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Una foto in cui è ritratto un uomo coperto di polvere, alle sue spalle una colonna di denso fumo nero, intorno i detriti prodotti da un’enorme esplosione. Questa immagine, divenuta un’icona virtuale della tragedia del Libano, è valsa al suo autore, il reporter lughese Lorenzo Tugnoli, il premio “Spot News” (sezione stories) del Word Press Photo 2021, sota di Oscar internazionale del fotogiornalismo.

Tugnoli, che è corrispondente del Washington Post e risiede dal 2015 nella capitale libanese, non è nuovo a premi e palcoscenici internazionali: nel 2019 ha vinto il Premio Pulitzer per la Fotografia (feature photography) e due World Press Photo: nel 2019 (categoria general news) e nel 2020 (categoria contemporary issues).

Il reporter lughese ha avuto la recente opportunità di reincontrare il suo soggetto, Elie Saibl, addetto alla sicurezza al porto, e ha raccontato l’emozione di questo incontro sulle colonne del Washington Post («Per lui è molto difficile guardare questa immagine, ma non si è sentito sfruttato per la sua sofferenza, quanto invece convinto che non sia stato fatto abbastanza per aiutare quanti furono feriti nell’esplosione»).

Tugnoli, cosa ha segnato la drammaticità di questo evento?

«Ho lavorato in vari scenari di guerra, e più rifletto più mi dico che ho visto città in quello stato solo dopo mesi e mesi di bombardamenti. Il 4 agosto ero qui a casa a Beirut (a 4 chilometri di distanza dal porto) e alle 18 ho sentito l’esplosione. Mi sono incamminato con la macchina fotografica verso la colonna di fumo che si alzava ad est. Un esplosione singola, ma di tale portata da distruggere una parte della città. I feriti venivano portati via a braccia perché la strada era completamente divelta, e tutto questo è accaduto non dopo un anno di assedio, come ho visto ad Aleppo, ma nel giro di pochi attimi».

Come ha reagito la popolazione libanese?

«I familiari delle vittime sono ancora in attesa di giustizia, e il paese si riprende ancora dai postumi di questo terribile evento. Questo premio è un grande riconoscimento del mio lavoro qui in Libano e speriamo che gli eventi dello scorso agosto non siano dimenticati. Il sentimento condiviso dalla gente è che lo stato libanese non si sua mosso a sufficienza e questo senso di abbandono si è aggiunto alla grave crisi economica. Sei giorni dopo l’esplosione il premier si è dimesso, ma non si ancora riusciti a formare un nuovo governo. C’era un’inchiesta della magistratura che si è interrotta, perché il magistrato titolare è stato dimesso ad opera degli stessi politici che aveva messo sotto inchiesta».

Perché è voluto recentemente tornare in Afghanistan?

«Ho vissuto dal 2010 al 2015 in Afghanistan dove sono ritornato spesso negli ultimi mesi perché il momento è molto interessante. Gli americani hanno firmato un accordo di pace con i talebani e il presidente Biden ha annunciato il prossimo ritiro delle truppe Usa. Si sta vivendo ora qualcosa che avrebbe potuto aver luogo nel 2002. Si sarebbero potute evitare molte morti e distruzioni».

Questa passione per la fotografia, si legge nella sua biografia, si è sviluppata a partire del G8 di Genova nel 2001, interrogandosi sul potere delle immagini…

«Sì, il mio avvicinarsi alla fotografia è stato molto legato a quelle manifestazioni “no global”, al desiderio di scavare di più. Per farlo diventare un mestiere ci sono voluti tanti anni e tanti viaggi, e quell’idea militante non è stata più legata all’attivismo, ma naturalmente al giornalismo. Fu un’epoca importante per tanti fatti che hanno coinvolto la mia generazione».

E perché ha invece sottolineato di cercare nelle immagini «la poesia, un elemento di mistero, un dettaglio che rimandi ad altro, alla vita prima della guerra»?

«Trovarsi a lavorare per un giornale come il Washington Post, significa rappresentare persone, conflitti, complicate situazioni geopolitiche. Per cui è sempre importante avere un’attenzione per chi sta davanti all’obiettivo, come nel caso di Elie Saibl, un ferito, un “senza nome” a cui dare un nome, una storia, un lato umano. La fotografia di guerra può essere iconica, ma non racconta l’individualità di chi è il soggetto fotografato. Occorre cercare di costruire immagini che non cerchino solo di dare spiegazioni, ma che, essendo sempre delle interpretazioni della realtà, aiutino chi guarda a porsi domande».

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