Fiammetta Borsellino: "Lotta alla mafia, serve più istruzione"

«L'istruzione è l'arma principale per combattere la mafia, perché la cultura ci insegna a pensare con la nostra testa e non con quella degli altri, ci dà consapevolezze dei nostri diritti e dei nostri doveri, ci dà la possibilità di dire no ai favori, alle raccomandazioni, alle scorciatoie, che poi qualcuno verrà sempre a chiedere qualcosa in cambio. Un prezzo altissimo, si diventa debitori. Ecco perché la lotta alla mafia si fa non con le pistole o le conoscenze importanti, ma con la conoscenza giusta che è quella della scuola, dell'istruzione che ci rende liberi dalla schiavitù dal potere mafioso. Questo diceva mio papà ai giovani ai quali lui ha dedicato la sua vita, anche prima di morire». Così Fiammetta Borsellino nel suo intenso e molto emozionante incontro con gli alunni dell'istituto comprensivo “Giulio Cesare” e della scuola superiore “Marie Curie” di Savignano ieri mattina al teatro Moderno. Incontro al quale hanno anche partecipato in collegamento le scuole medie di Gatteo, San Mauro Pascoli e Longiano e tante autorità locali, amministratori pubblici come l'assessora regionale alla scuola Paola Salomoni, e delle forze dell'ordine.
Le stragi di mafia
Fiammetta Borsellino, che oggi dedica la sua vita a diffondere la cultura della legalità, ha a lungo raccontato di suo padre. Una testimonianza oggi ancora più importante, arrivata a pochi giorni dall'arresto del latitante da oltre 30 anni Matteo Messina Denaro. La figlia di Borsellino ha raccontato gli ultimi 57 giorni che hanno separato la strage di Capaci, in cui fu ucciso il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della sua scorta, e la strage di via D'Amelio in cui furono assassinati Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta. Fiammetta Borsellino ha anche raccontato di quanto suo padre credesse fortemente nei giovani e nella loro educazione come contrasto alla mafia.
L’ultimo giorno
«Il 19 luglio, giorno della strage, mio papà si alza alle 5 del mattino e la sua ultima lettera l'ha scritta in risposta a dei ragazzi di una scuola di Padova che erano rimasti male perché lui non aveva potuto partecipare a un loro invito. Quelli erano giorni particolari e mio padre era molto impegnato in attività continua dal punto di vista investigativo e di testimonianza. In quei giorni non aveva neanche tempo da dedicare a noi figli, anche se lui era un padre molto presente, proprio perché in quei giorni lui era consapevole di fare una corsa contro il tempo».
«Non lo hanno ascoltato»
Ci sono recriminazioni: «Non avere poi dato a mio padre la possibilità di riferire alla procura di Caltanissetta quello che aveva scoperto sulla morte dell'amico significò relegarlo nella condizione di solitudine e pericolo che lo ha portato al 19 luglio. Lui pregò le istituzioni di essere ascoltato perché aveva cose importanti da riferire, ma nessuno lo volle fare e questo lo portò ad uno stato di disperazione tale da dichiarare, in uno degli ultimi suoi interventi pubblici, di sapere chi aveva ucciso Giovanni Falcone. Dopo la morte di mio padre non fu mai chiesto di questo diniego alle persone che non lo vollero sentire, cosa che forse denota come c'era un preciso interesse non solo della mafia ma anche di apparati dello Stato collusi».
Quartiere difficile
Fiammetta Borsellino ha poi raccontato come suo padre e Giovanni Falcone, entrambi cresciuti nel quartiere molto povero delle Calze di Palermo, dove nel Dopoguerra vivevano tante famiglie mafiose importanti, come gli Spadaro, e dove giocavano a pallone coi figli e i nipoti di queste famiglie mafiose, seppero scegliere fin da piccoli da che parte stare vedendo molte cose che non condividevano.
Conoscenza del territorio
Poi l’appello ai giovani: «Ragazzi dovete vivere i territori perché solo conoscendo la realtà di un luogo, i problemi può nascere dentro di voi la voglia di poter fare qualcosa per cambiare le cose. Ragazzi riappropriatevi delle piazze, dei giardini, così che diventino di nuovo luoghi d'incontro e non solo di spaccio e di malavita. Conoscete i problemi dei posti che vivete, che significa non dire “Mi ne futto”, girarsi dall'altra parte e farsi i fatti propri, perché i problemi degli altri e di un territorio poi ricadono su di noi generando violenza».
Atto di amore per la Sicilia
E ha aggiunto: «Un altro elemento poi che ha spinto mio padre a scegliere la legalità e non la mafia è stata l'idea della cura, che ha appreso fin da piccolo da suo padre Pietro, farmacista a cui tutti andavano a chiedere consigli. Mio padre ha fatto il suo lavoro di magistrato con dedizione e come un atto di amore non solo verso la Sicilia ma verso tutta la nazione. Lavoro portato avanti costi quel che costi. Lui e Falcone infatti si definivano “cadaveri viventi” ma sono andati avanti col sorriso incontro alla morte non pensando mai di cambiare strada e le loro idee continuano a camminare nelle gambe di altre persone. C'è quindi una vittoria della vita sulla morte».
Matteo Messina Denaro
Non poteva poi non essere toccata la notizia dell'arresto di Matteo Messina Denaro. «Questo arresto è un atto dovuto da parte dello Stato, ma in uno Stato sano si sarebbe dovuto arrivare in tempi più celeri all'arresto di persone che hanno seminato morte. Un atto normale in uno Stato sano, non bisogna istituire giornate della memoria per quello che dovrebbe essere un'attività normale per prevenire la potenza criminale di queste persone. Meglio tardi che mai! Ma ricordiamoci che questo signore non è stato preso in Finlandia, ma a casa sua, in una situazione paradossale in cui tutti sapevano dov'era. Mi faccio molte domande, mi chiedo veramente quale possa essere il contributo di questo signore, che spero possa dare. Ma prevale l'amarezza per uno Stato che non è riuscito a prevenire e arrestare in tempi congrui queste persone».
L’uomo Borsellino
Infine la figlia di Borsellino rispondendo alle tante domande dei ragazzi ha ricordato anche tanti momenti di famiglia e del rapporto con suo padre che sentì per telefono proprio quel 19 luglio 1992, mentre lei 19enne era a Bali per un viaggio «fatto anche per sfuggire a quella cappa di morte che aleggiava». In questi ricordi è emersa la figura paterna e l'uomo Paolo Borsellino, capace di giocare coi bambini «che lo cercavano sempre proprio perché insegnava loro a dire parolacce».

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