Fellini: l’anima di Pasqualino è l’anima di Federico

RIMINI. Testa ovale, tre ciuffi di capelli, un naso a patata e il fisico smilzo. E poi una cronica insicurezza. Così si presenta “Il mio amico Pasqualino”, personaggetto che esce dalla fantasia del Fellini poco più che ventenne. Un buffo alter ego, protagonista di un racconto, accompagnato da 12 vignette, che vide la pubblicazione per la prima volta, si ipotizza, tra il 1942 e il 1946. Lo scoprì anni fa il libraio romano Giuseppe Casetti rovistando una domenica al mercato di Porta Portese. Si trovò tra le mani «un libricino modesto, con la copertina rosa un po’ stinta». Titolo e autore: “Il mio amico Pasqualino” di Federico. In quegli anni il futuro regista si era già conquistato una certa notorietà lavorando come umorista e vignettista per la rivista Marc’Aurelio dove si firmava spesso semplicemente come Federico.
Tra l’aprile del 1939 e il luglio del 1943 il giovane Fellini scrisse per il Marc’Aurelio circa 790 racconti brevi, fortemente autobiografici, raccolti in rubriche che riscuoterono un certo successo: da “Ricchettino bambino qualunque” a “Secondo Liceo”, “Primo amore”, “Come si comporta…”, “Ma tu mi stai a sentire?”. Entrato a far parte della redazione diretta da Vito De Bellis, dove lavoravano firme importanti all’epoca come De Torres, Steno, Metz, Attalo, De Seta o Marchesi, Fellini fu anche autore di numerose vignette umoristiche.
Ma veniamo a Pasqualino. Il libretto scritto da Federico Fellini è stato ristampato in copia anastatica nel 1997 dall’allora omonima Fondazione riminese, direttore Gianfranco Angelucci. Fu anche organizzata una mostra, accompagnata da un libro che a tutt’oggi resta una delle fonti più preziose per ricostruire la “carriera” di vignettista e umorista di Fellini. Sia il libro che la mostra furono a cura di Giuseppe Casetti e di Rossella Caruso.
Nel suo testo introduttivo, Angelucci collega Il mio amico Pasqualino a una «plausibilissima occasione ispirativa» di cui avrebbero testimoniato Rinaldo Geleng ed Enrico De Seta: la lettura, che lo aveva entusiasmato, de La metamorfosi di Kafka. Certamente, lo scritto rivela una «inquietudine visionaria» che fa pensare che il giovane Fellini possa avere preso a modello proprio il capolavoro dello scrittore praghese.
Di sicuro, come nota ancora l’ex direttore della Fondazione e collaboratore del regista, il testo – composto da 13 racconti intorno a diversi momenti di una giornata – appare come un condensato di temi felliniani e contiene «molteplici suggestioni che andranno a nutrire i suoi film».
L’incipit
«Una volta, lo conoscevo allora da qualche giorno soltanto, Pasqualino mi disse di aver fatto uno strano sogno». Inizia così Il mio amico Pasqualino. E se non fosse indubbia la collocazione temporale tra periodo bellico e primo dopoguerra, verrebbe da pensare a uno scritto più “maturo”, quando il regista, a seguito di una profonda crisi, iniziò un percorso psicoanalitico che lo portò non solo a trascrivere costantemente i propri sogni in quello che diventerà il Librone dei sogni, ma a nutrire in generale un profondo interesse per la sfera onirica.
L’autobiografismo, altra costante felliniana soprattutto da 8½ in avanti, è un altro elemento da ritrovare nel breve racconto. «Quanta parte di se stesso ha messo Fellini nel ritratto del suo amico Pasqualino? Una parte non piccola, credo»: l’osservazione è di Beniamino Placido, chiamato nell’estate del 1997 da Angelucci a scrivere una introduzione alla ristampa del libro. Arguto intellettuale, Placido vedeva nei 13 racconti definirsi un «ritratto comico-grottesco-esistenziale» dello stesso Fellini. Il giornalista e critico letterario vede nel personaggio di Pasqualino proprio una di quelle figure che appartengono alla “genìa degli esclusi” di cui ha dato esempi di massimo grado tra quelli letterari lo scrittore triestino Italo Svevo.
Certi momenti, se non interi episodi, sembrano «già una sceneggiatura, felliniana» osserva ancora Placido. Il riferimento è in particolare al capitolo VII, in cui si narra dell’incontro, in una “casa chiusa”, con una prostituta: «Dalla lampada pende un asciugamano sporco e sfrangiato, la coperta è unta e piena di buchi… Accanto alla spalliera di ferro smaltato uno straccio grigio». Ci troviamo in una stanza «nuda. Tristissima». Da qualche parte «giungono risa sguaiate». Entra in scena il protagonista e già lo vediamo “straniato”: «Pasqualino fissa la sua cravatta (perché gli sembra tanto lontana?) che scivola lentamente dall’attaccapanni su di una vestaglia rosa…». Dialogo: «Come hai detto che ti chiami?» – «Carmen». «Ha la voce roca. Sulla schiena un livido azzurro…».
Fellini descrive e sembra come vedere la scena di un film: non sta forse descrivendo ai lettori un campo-controcampo? Ma non basta: poco prima possiamo quasi immaginare una telecamera che si ferma su un dettaglio: «in un angolo una mano gira un rubinetto e l’acqua scorre nel lavabo».
Nella vignetta disegnata da Fellini per questo episodio la prostituta è una donna corpulenta. Affatto aggraziata e seducente come invece appare la ragazza che Pasqualino tenta goffamente di abbordare nel capitolo IV: ha «due seni rosa, meravigliosi fianchi di velluto, un collo morbido, pieno di calore, di ombre…».
L’anima di Federico
Come ha notato Giuseppe Casetti, gran parte dei capitoli de Il mio amico Pasqualino coincidono «quasi del tutto con i racconti brevi del Marc’Aurelio» da cui quindi Fellini pare avere attinto a piene mani. Anche le “fattezze” dei personaggi del libro, a iniziare dal protagonista, le ritroviamo nelle vignette pubblicate da Fellini sulla rivista satirica.
Pasqualino, osserva inoltre Casetti, «somiglia un po’ nell’aspetto, non nel carattere, a Braccio di Ferro, ma il nostro eroe deve adattarsi al mondo senza gli spinaci e i muscoli dell’ingenuo e rissoso marinaio, perché l’anima di Pasqualino è l’anima di Federico».

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