Eraldo Pecci: «Bisogna essere leggeri quando si parla di calcio»

Archivio

Eraldo Pecci, adesso è il momento della “partenza dal basso”. Cosa ne pensa?

«Ogni tanto capita che arrivi qualcuno che inventa il calcio ma guardate cosa faceva l’Olanda del ’74 con Krol, Haan e Suurbier, oppure pensate alla Germania con Beckenbauer che non buttava certo via la palla. Oggi va di moda questo far giocare tutti (compreso il portiere, che una volta doveva avere le mani) pensando a non buttare via la palla dimenticandosi però che può essere dannoso e che, se hai per esempio Lukaku e Zapata, la palla la butti e vai di là perché risali il campo molto velocemente. Siamo sempre lì: dipende da che giocatori hai in squadra, se sono scarsi è inutile che pensi di partire dal basso perché poi prendi gol facilmente. In generale non credo ci sia una verità assoluta: il calcio esiste già da un pezzo ed è chiaro che ognuno fa i pensieri che vuole per confortare la sua teoria».


Una teoria che tanti club italiani hanno sposato con pessimi risultati, guardando le coppe europee. Se l’aspettava questa crisi?


«Sì. Mi spiego: nei club adesso si lotta per arrivare quarti, per cui è una corsa al ribasso in un campionato che ha vinto 9 volte di fila la stessa squadra come accade in Macedonia o in Azerbaigian. Non c’è crescita in un movimento dove sei contento se arrivi quarto e comunque sei contento anche se ti piazzi quinto o sesto in classifica, pensate che se la cava anche chi retrocede perché c’è il paracadute per chi cade in B. Insomma, non c’è qualità per cui da noi arrivano i giocatori di 35 anni come Ronaldo che invece a Manchester ci arrivò quando aveva 18 anni: ecco, tutto questo fa la differenza».

Insomma, il calcio italiano si è “balcanizzato” quanto a campionato interno. Meno male che c’è la Nazionale, giusto?


«Non mi aspettavo che la nazionale andasse così bene, è un raggio di sole in questo momento visto che è formata da buoni giocatori che hanno formato un buon gruppo. Capiamoci: una componente che aiuta è quella legata alle tante Nazionali che sono nate dalla dissoluzione della Jugoslavia e della Russia per cui ci sono tante più squadre “giocabili” rispetto ad una volta ed è più semplice fare risultato. La sensazione del miglioramento c’è e gli Europei saranno un banco di prova per averne la conferma».


Com’è questo calcio ai tempi del Covid?


«Il calcio è qualcosa di popolare, è un gioco che è nato con la gente sugli spalti. Mi piace lo stesso, se vedo un bel gesto tecnico lo apprezzo con o senza il pubblico, però è chiaro che manca una componente di base: è chiaro che con la tv possiamo apprezzare comunque una bella giocata, ma dal vivo è un’altra cosa. In ogni caso, sono uno a cui piace il calcio giocato: non sono uno da avvocati, non sono uno da ricorsi, questi aspetti a me non interessano, io guardo quanto succede sul campo dove ci sono, come in tutte le epoche, i giocatori più bravi e meno bravi».

A proposito di bravi, c’è in giro adesso un Pecci?


«Forse un po’ Verratti e un po’ Jorginho, ma non credo sia cambiato poi chissà che cosa rispetto ai miei tempi nei quali ho avuto la fortuna di fare un mestiere che mi piaceva e che mi ha fatto divertire. Dico sempre che “l’uomo continua a mangiare dalla bocca ed a cagare dal culo”: il calcio è sempre quello, così come non è cambiato chissà che cosa nell’atletica quando Mennea faceva i suoi record ed adesso i tempi sono più o meno simili. Sono cambiati i vocaboli del calcio, adesso ti dicono ripartenza e fare densità mentre una volta giocavi in contropiede e facevi catenaccio: il calcio è sempre quello, le misure del campo non sono cambiate, l’arbitro è sempre uno e 22 i giocatori».

Mai pensato di fare l’allenatore?


«No, perché non sono uno che caratterialmente sa mediare ed avrei fatto fatica a parlare con la squadra ed interagire con un presidente che deve comandare mettendoci i soldi. Ho fatto il direttore sportivo a Bologna con Gazzoni portando il mio allenatore Zaccheroni: quando venne esonerato, io mi dimisi perché lui era stata una mia scelta. Te l’ho detto: non so mediare e mi sto sulle palle da solo per questa cosa».


Ai suoi tempi lei era “Piedone”. Le piaceva quel soprannome?


«Non era così grande in senso assoluto, ma il mio 43 di piede diventava grande visto che ero alto 1 metro e 20… Quando qualcuno scherza con te significa che c’è vicinanza nei tuoi confronti, vuol dire che vuoi bene alla persona con cui scherzi».


Tanti compagni e tanti allenatori…


«Ho giocato con Bulgarelli, Savoldi, Graziani, Pulici, Antognoni, Maradona e da tutti ho avuto la fortuna di imparare qualcosa tutti i giorni e di crescere grazie a loro. Ho giocato contro Rivera e Corso, mi ricordo quello che mi disse Pesaola quando mi allenò a Bologna: “Lei Pecci sa chi è Mario Corso?” e, dopo la mia risposta “Certo, ho anche la figurina”, lui mi disse “Bene, lo segua ovunque, anche quando si allaccia le scarpe oppure esce dal campo perché se non tocca la palla lui e non tocca la palla lei noi ci guadagniamo”. Erano personaggi così».


Quattro mesi fa moriva Diego Armando Maradona, suo compagno di squadra a Napoli. Cos’era Diego per Pecci?
«Un esempio di come, quando sei bravo nel tuo mestiere, sai anche essere una persona disponibile e generosa nei confronti degli altri: la persona brava non ha paura di essere pronta ad aiutare tutti. Viceversa se sei bravo ma poco disponibile, significa che hai paura che gli altri si accorgano che non sei all’altezza e che non hai qualità. Diego è stato una persona di una generosità immensa, Dio gli ha detto “vai sulla Terra a giocare” e lui è venuto: quando questi geni se ne vanno, c’è gente che senza averlo conosciuto ricordano le cose brutte. Diego ha fatto del bene a tutti, non sentirete mai un suo compagno parlare male di lui».


Un anno fa ci salutava Gianni Mura, un altro grande…

«Gianni rientrava nella categoria di cui sopra, ovvero una persona che era come si deve essere senza far pesare agli altri la propria altezza. Era una persona che aveva un grande amore per lo sport, era sempre disponibile a qualsiasi tipo di discussione sempre con semplicità e la sua generosità non era solo dal punto intellettuale ma anche da quello materiale. Quando andavo a mangiare con lui non c’era mai modo di pagare: ci sono riuscito solo una volta, minacciando che altrimenti non sarei andato».


Mura ha scritto anche la prefazione al suo libro: a proposito, come nasce la sua passione per la letteratura?


«Ho sempre avuto la passione per la scrittura e la lettura, in trasferta ed in ritiro sono sempre stato uno che ha letto molto e capito poco. Gianni Mura ha scritto la prefazione del mio primo libro (“Il Toro non può perdere”, ndr) e quando lo presentavamo mi aiutava molto, dicevo sempre che “Cinque sue righe di prefazione dicono di più delle 180 pagine del mio libro per cui leggete quelle e buttate tutto il resto”. Ho letto tutto quello che capitava a tiro lo leggevo poi sono passato ai sudamericani e “Cent’anni di solitudine” è un libro meraviglioso. Ho letto veramente di tutto da Soriano e Galeano passando poi alla beat generation, da giovane ho letto tutti gli autori russi e non mi è venuto l’orchite. Insomma, sono un lettore onnivoro».
“Mpenza Mbo chi entra”. Questa sua battuta al fianco di Pizzul in un Italia-Belgio di 20 anni fa, ci fece innamorare di lei e del suo modo di commentare il calcio. Le hanno mai messo il freno?


«Assolutamente no, nessuno mi ha mai detto questo sì oppure questo no, parla bene dei bianchi piuttosto che dei neri. Io sono così come mi avete sentito in tv, questo è un gioco e quindi bisogna essere leggeri quando se ne parla: in questo ha ragione Sacchi quando dice che il calcio è la cosa più importante delle cose meno importanti».


Ancora di più adesso, che il Covid ci costringe alla clausura…


«Noi siamo fortunati, quando sento dire “è una come una guerra” evidentemente non hanno mai sentito dai loro nonni che cosa voleva dire vivere in tempi di guerra. Dobbiamo fare del nostro meglio in questo momento non bello, anche in questo caso credo che aiuti leggere perché se lo fai trovi tante risposte di questo periodo nei “I Promessi Sposi”, “L’amore ai tempi del colera”, “La peste”. I libri aiutano eccome».

Beh, non dirà che legge tutto il giorno…
«No, guardo le partite in tv perché adesso ne puoi vedere veramente una al giorno e poi scrivo…».


Calciatore-lettore-scrittore?
«Sì, scrivo sempre qualcosa. Roba che non sempre vale la pena pubblicare, quando ho scritto il mio primo libro lo feci per ricordare quel gruppo di amici al Torino non solo per chi giocava ma anche quelli che c’erano attorno a quel calcio. Ho voluto raccontare della vita della Torino di quel tempo, con le BR: quando scrissi quel libro lo diedi ad un amico giornalista che lo mandò alla Rizzoli, quando mi chiamò la segretaria della Rizzoli la mia prima risposta, visto che pensavo fosse uno scherzo, fu “Ma va a cagare”».

#getAltImage_v1($tempImage)

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui