Elio De Capitani a Imola con il "Moby Dick" di Orson Welles

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Ci voleva la maestria di Orson Welles per rileggere il mito della letteratura Moby Dick di Melville, e metterlo in scena nel 1955, nella personale versione di Moby Dick alla prova; un testo sintetico in versi dove il capitano Achab è confrontato al personaggio shakespeariano di Re Lear. Moby Dick alla prova di Welles è portato sui palcoscenici italiani dal Teatro dell’Elfo Puccini di Milano; da stasera alle 21 fino a domenica 26 febbraio (doppie recite alle 15.30 sabato e domenica), arriva al teatro Stignani di Imola, uniche date romagnole.

È un affresco corale con dieci attori, musiche dal vivo di Mario Arcari, canti di lavoro del mare (sea shanties) diretti da Francesca Breschi. Regista e protagonista nei quattro ruoli che tenne per sé Orson Welles (Achab, padre Mapple, Lear, l’impresario teatrale), è Elio De Capitani (1953), che condivide la scena con Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Marco Bonadei, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Massimo Somaglino, Michele Costabile, Giulia Viana, Vincenzo Zampa.

Traduttrice del testo inglese in versi sciolti (blank verse) è Cristina Viti, da 40 anni a Londra (traduttrice anche della “nostra” Mariangela Gualtieri).

De Capitani, se Orson Welles era stato ardito pensando di rifare Moby Dick, anche lei non è da meno riportando il testo dell’attore e regista americano. Cosa l’ha spinta?

«Lo lessi in inglese vent’anni fa, ma non compresi la forza dei versi sciolti in cui recitiamo. Di recente è uscita una traduzione in italiano (di Marco Rossari, Italo Svevo Edizioni, 2018, ndr) che il critico teatrale Franco Cordelli mi ha esortato a portare in scena. Abbiamo provato durante la chiusura al pubblico dei teatri e goduto di condizioni ideali; tempo, spazio, materiali, tecnici, collegamenti con la traduttrice da Londra e con la direttrice dei cori a Firenze. Lo portiamo in tournée fino al 2025».

Come si rapporta questo testo sintetico al Moby Dick originale?

«Ha un rapporto analogo a quello che esiste tra l’ Otello di Shakespeare e l’opera di Verdi, entrambe perfette. Non liofilizzati di Shakespeare, non riassunti, ma cristalli; dentro c’è tutto e la traduzione in versi sciolti lo rende potente. Nonostante le elisioni si sente lo spirito, il senso, l’urgenza di un artista (Welles) di raccontare i personaggi del mito americano in una luce particolare. I perni del capitano Achab, dell’ufficiale Starburck, del testimone Ismael, ci fanno capire tre modi di guardare il mondo. Il personaggio di Pip, marinaio di colore che impazzisce dopo essere caduto in mare, diventa una sorta di fool di un Achab molto legato a quello di Lear. Lo spettacolo si apre con una compagnia che sta provando Re Lear ma che passa poi a Moby Dick».

Cosa racconta questo Moby Dick rispetto alla storia di Melville?

«Ripercorre la trama del romanzo; gli incontri con l’armatore Peleg, con padre Mapple, con il marinaio Elia; e poi quelli con i tre ufficiali Starburck, Stubb, Flask, fino a Pip e all’arrivo di Achab che annuncia: “Sono qui per cacciare il capodoglio bianco”, riuscendo a manipolare tutti. Nella seconda parte sviluppiamo la caccia in mare fino all’apparizione di Moby Dick e alla rovina dei protagonisti. Rispetto al testo di Orson Welles, nel nostro Cristina Crippa apre il secondo tempo con un frammento di Melville da lei elaborato e introduce un tema ecologico a difesa della balena bianca».

Cosa emerge dai personaggi tratteggiati da Welles?

«Il fatto che tutti, dagli ufficiali a Ismaele, sono contrari al comportamento folle di Achab, al suo odio verso il capodoglio. Ma tutti lo subiscono, inermi davanti al sopravvento del capitano, incapaci di frenare la sua ossessione fanatica per il nemico bianco. Così come Achab non è in grado di contrastare sé stesso; allo stesso modo di come tanti di noi non riescono a sottrarsi alle proprie ossessioni».

Davvero compare il capodoglio?

«È così, a conclusione della caccia in mare, con i poveri strumenti del teatro, fellinianamente facciamo comparire un capodoglio di 18 metri sulle nostre teste, attraverso un trucco teatrale di stoffa e di aria; è la magia finale che ci inghiotte davvero».

Il capodoglio omaggia il 50° del Teatro dell’Elfo (17 marzo 1973); come può riassumere questa storia di cui è stato l’anima e cofondatore con Ferdinando Bruni, Gabriele Salvatores e altri?

«Rispetto al teatro di ricerca e ai classici degli Stabili, noi scegliemmo gli autori contemporanei e Fassbinder nume tutelare. Momenti di svolta sono stati, nel 1982-83 “Nemico di classe” di Nigel Williams con i giovani Claudio Bisio, Paolo Rossi, Antonio Catania; nel 2006 “Angels in America” di Tony Kushner, fino al nuovo Elfo Puccini del 2010, con un nuovo nucleo di attori subito premiati con l’Ubu under 35 per “History boys”. A oggi sono 120 gli spettacoli prodotti di cui almeno 20 capolavori».

Info: 0542 602600

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