Ecco l'ultima smargiassata dello sbruffone di borgo Mazzini

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Nella piccola Rimini degli anni Venti, che spalma tutta la sua vita sociale e di relazione dall’Arco al Ponte, anche le gesta irriverenti di certi individui – più noti alle forze dell’ordine che al quartiere dove abitano – diventano oggetto di discussione e di ilarità. Ed è proprio l’interesse nei confronti delle loro azioni che spinge questi tipetti a perseverare nelle bravate fino a farli diventare prigionieri dei propri atti e caricature di se stessi. Tra questi, sul gradino più alto del podio delle spacconate, si posiziona Badurle: le sue prodezze riempiono le colonne dei periodici, entrano nel chiacchiericcio cittadino e irrompono addirittura nel fraseggio dei palcoscenici caserecci. Sulle sue spavalderie Aldo Berlini (1901-1979), prolifico autore di commedie e operette, scriverà una farsa molto esilarante, La 99a cundana ‘d Badurle, che riempirà le sale parrocchiali del riminese nei primi due decenni del secondo dopoguerra. Detto questo, parliamo del personaggio come ce lo consegnano le cronache degli anni Venti, senza prendere spunto dagli aneddoti che lo riguardano e che ancor oggi si tramandano di padre in figlio. «Questa volta così, ma un’altra volta farò l’assassino!». Con questa frase sibillina rivolta ai giudici della Regia prefettura e riportata testualmente sulle colonne del Popolo di Romagna del 29 settembre 1928, Badurle – solito ghigno, camicia a quadrettoni, pantaloni sdruciti legati in vita da una corda – lascia l’aula del tribunale scortato da un codazzo di marcantoni in divisa. Due mesi, per aver sgraffignato una gallina, proprio non se li aspettava. Al compagno di sbornie Taroc, incontrato il giorno prima in una cella della Rocca Malatestiana (a quel tempo Castel Sismondo era sede del carcere mandamentale), aveva assicurato che sarebbe uscito subito, il giorno stesso dell’udienza, e insieme sarebbero andati a festeggiare l’evento da Otello, ovvero nell’osteria di borgo Mazzini. Ad infondere tanta sicurezza a Badurle era l’esperienza di una lunga carriera da lestofante costellata di numerosi processi – 34, stando al ben informato cronista del giornale – l’ultimo dei quali affrontato appena quattro mesi prima. Proprio in quella occasione, per aver tentato di vendere al legittimo proprietario una bicicletta «trovata» per strada, si era beccato sette giorni. Questa volta, forte anche della precedente sentenza, facendo le dovute proporzioni e mettendo nel calderone le “attenuanti generiche” – la gallina se l’era trovata proprio in mezzo ai piedi a mo’ di sfida – era sicuro che sarebbe ritornato libero immediatamente. Anzi, pensava di essere lui stesso in credito con la giustizia, dato che era giunto all’udienza con 14 giorni di gattabuia alle spalle, un soggiorno che riteneva più lungo della stessa pena che gli avrebbero dovuto comminare. Convinto quindi di aver subìto un’ingiustizia, questo galantuomo con la vocazione del furto attribuiva la colpa del madornale errore giudiziario sia al pubblico ministero che al difensore d’ufficio. Il primo, che di mesi ne aveva chiesti addirittura quattro, a parere di Badurle non aveva applicato correttamente il codice; il secondo, invece, si era reso responsabile di essersi appellato alla clemenza della corte senza troppa convinzione, dimenticando persino di accennare alla irreprensibile condotta tenuta dal suo assistito durante i tre mesi estivi trascorsi in spiaggia a sgobbare tra i capanni e le tende del cognato bagnino. Ma l’agitarsi scomposto, lo sguardo truce e le «terrificanti e minacciose parole» mugugnate da quella sorta di guascone ferito nell’orgoglio, non impensieriscono nessuno, tantomeno il giornalista del Popolo di Romagna, spedito in quell’aula proprio per registrare l’ultima smargiassata di questo Fantomas da strapazzo. Badurle, infatti, oltre che per i suoi atti da “ladro di polli”, è noto per le sue sbruffonate. Arrogante, sfacciato e sprovvisto di senso della misura è solito uscirsene con battute ad effetto sfrontate e grossolane, alcune delle quali non prive di umorismo. E la tribuna preferita per i suoi sfoghi umorali è proprio l’aula di giustizia. Lì, tra avvocati, magistrati, cancellieri e curiosi, la sua estemporanea insolenza diventa addirittura “creativa”, suscitando spesso l’ilarità del pubblico. E ciò spiega la massiccia folla di affezionati sempre presente alle sue sceneggiate giudiziarie. Nel dicembre del 1926, per esempio, l’aula del tribunale traboccava di gente: nelle prime fila, pronti a sghignazzare, c’era l’intero borgo Mazzini, clienti fissi di Otello, tutti in attesa di Badurle. Questi, beccato dal solito guastafeste di turno con le mani nel sacco, o meglio con le mani dentro la vetrina in frantumi di un negozio di scarpe in via Garibaldi, era imputato di scasso e tentativo di furto. Durante il dibattimento il presidente, che si era mostrato ben disposto verso il “reo confesso”, volendo accertare i particolari del reato – probabilmente per vagliare eventuali attenuanti –, rivolgeva a quello stinco di santo una domanda specifica: «Quando rompeste il vetro e introduceste la mano all’interno del negozio, avevate in mente di asportare un paio di scarpe?». Badurle, che qualche attimo prima aveva incrociato lo sguardo ironico degli amici d’osteria smaniosi di vederlo nuovamente alla prova, per non deludere il suo pubblico rimbeccava con una smorfia beffarda sulle labbra: «Perché, lei pensa che volessi mettere dentro le mie?». E per schernire maggiormente l’ingenuo magistrato, con una piroetta alzava una gamba e barcollando mostrava alla platea la suola della scarpa, logora e bucata. Un gesto tanto spavaldo quanto insolente che faceva rintronare l’aula di risate.

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