Dischi: Bruno Valeri e il suo "bluismo"

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Vira in “Blu” l’introspezione elettronica di Bruno Valeri. Il cantautore riminese sceglie il colore notturno della solitudine e della distanza come guida e titolo del suo ultimo disco. Canzoni di minimalismo elettronico, in grado di scandagliare e far risuonare le profondità. Brani nati nella solitudine e cresciuti grazie a collaboratori come Fabrizio Emendabili o Fulvio Mennella, che ha mixato e masterizzato il disco nei suoi Whale’s Belly Studio di Riccione. La produzione è di Raffaele Montanari, per le edizioni Pms.

Valeri, come suona il blu?

«Il colore blu è il desiderio di un suono. Il suono dei sintetizzatori, preciso e affilato, onda in movimento non corrotta. Il suono della distanza e della vastità, dalle orbite ai fondali. Il suono del raccoglimento e della solitudine, dell’indulgenza, della tristezza talvolta. Blu è il suono della notte che amplifica le intuizioni, confonde le certezze e annota i sogni. Un colore essenziale, quasi un manifesto poetico, il “bluismo”».

Brani, rispetto il passato, con una forma canzone più definita.

«L’obiettivo iniziale era di realizzare dei piccoli quadri, delle miniature. Racconti veloci che arrivassero presto al punto, e qual è il punto? Il ritornello. Fulvio (Mennella), mentre mixavamo, mi ha detto che queste canzoni sono eterni ritornelli. Mi piace, perché è il ritornello a qualificare una canzone, a giustificarla. Poche pennellate di attesa solo per riuscire a lanciare come si deve il ritornello. Questa è l’ambizione».

Una scrittura che sembra più attenta alla narrazione.

«Per la prima volta ho scritto i testi prima delle musiche o, meglio, ne ho definito la “storia” che poi, solo con le parti melodiche, ho potuto rifinire. Nella scrittura mi lascio andare alla fonetica e alla costruzione di frasi e immagini in successione, dove il senso del racconto mi appare solo alla fine (e non sempre). Una sorta di messa a fuoco progressiva, a volte più lirica, altre più letteraria. Mi sembra che, avendo scritto tutto insieme, in un breve lasso di tempo, ci sia una linea narrativa coerente che altro non è che un’osservazione al microscopio, dove non ho la pretesa di cogliere l’essenziale ma, piuttosto, la libertà di soffermarmi sui dettagli».

L’elettronica è minimale, scarna, al servizio della canzone. Come avete sviluppato i suoni?

«L’idea di scrivere “Blu” è nata dopo l’acquisto di un nuovo strumento, una meravigliosa scatoletta, piena di suoni, che utilizza la sintesi Fm ma con sole quattro tracce. La sfida era proprio quella di fare canzoni utilizzando solo queste quattro linee: drum machine, synth bass e altri due synth a costruire la trama del suono. Un percorso obbligato e, per definizione, povero. Durante la composizione, insieme al mio antico ed eterno socio, Fabrizio Emendabili, l’idea originale è stata in parte tradita (è fondamentale e rigenerante tradirsi) e alcuni elementi sono stati aggiunti. Credo che però sia stata mantenuta l’intenzione originale di non sacrificare i silenzi e l’aria di cui le canzoni necessitano».

Come cambia scrivere, ma anche produrre, in tempi di Covid? «Quasi tutte le canzoni sono state scritte un attimo prima del primo lockdown, per cui, in teoria, non influenzate dall’atmosfera che abbiamo vissuto (e ancora stiamo vivendo). A posteriori colgo però alcuni embrioni “profetici” in vari passaggi (il singolo “Blu” su tutti ma non solo). A metà del lavoro la situazione era esplosiva e, d’accordo con Fabrizio, ci siamo fermati per un paio di mesi per poi riprendere in estate. Forse, quello che è più cambiato, è stata la difficoltà di cogliere il piacere creativo di fronte a un dolore così pervasivo. Una volta di più un esercizio di riposizionamento delle priorità». P.A.

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