Persone segnate per sempre, i sopravvissuti. Lo raccontavano Primo Levi, che forse alle sue stesse domande a un certo punto non riuscì più a rispondere, o Bruno Bettelheim con la sua riflessione sul «limite invalicabile». Anche Franco Leoni Lautizi era un sopravvissuto alla strage di Marzabotto, dove perse quasi tutta la famiglia: alla sua storia si ispira il film di Giorgio Diritti “L’uomo che verrà”.
Il 17 aprile dell’anno scorso se ne è andato anche lui, ma per decenni ha raccontato nelle scuole cosa siano la guerra e l’odio, e questi racconti sono finiti in un libro, Ti racconto Marzabotto. Storia di un bambino che è sopravvissuto (De Agostini), pubblicato alla fine di marzo di quest’anno. La curatela è di Daniele Susini, ricercatore ed esperto di didattica della Shoah, direttore del Museo Linea Gotica orientale di Montescudo-Monte Colombo e collaboratore del Memoriale della Shoah di Parigi.
Aveva sei anni Franco, nel settembre del 1944, e viveva in un paese tranquillo ai piedi di Monte Sole, apparentemente lontano dalle bombe e dalla paura della guerra. «Prima di incappare nella Storia – raccontava – ero un bambino felice».
«Franco si rivolgeva anche ai più piccoli e agli adulti – racconta Susini – ma gli adolescenti in particolare costituivano per lui il futuro, coloro che avrebbero portato avanti la sua storia e quella della sua famiglia. E proprio a loro, lo diceva sempre, raccontava la guerra: per insegnare la pace».
Il libro porta la prefazione dell’europarlamentare Martin Schulz.
«“Ti racconto Marzabotto” non vuole fare luce solo sul “durante” ma anche sul “prima” e il “dopo”, sulle cicatrici che restano. Parliamo quindi anche del dopoguerra, con la mancata giustizia che rese ancora più duro il dolore di chi era rimasto, e della necessità del perdono. Non basta infatti premere un interruttore, la guerra lascia echi e tracce drammatiche che per Franco durarono anni. Ma la prefazione di Schulz, un tedesco che presentava la storia di un sopravvissuto, fu voluta fortissimamente proprio da lui, come segno di riconciliazione fra i due popoli».
Lei ha parlato di “necessità” del perdono.
«Franco diceva di aver continuato a odiare i tedeschi a prescindere, per anni dopo quei fatti tragici. Poi capì che in realtà non erano colpevoli, erano persone qualunque, e che il perdono era un atto dovuto, la pace l’unica soluzione. Anche se aveva subito tanto e aveva odiato e desiderato la vendetta, si era reso conto della necessità di una riconciliazione: privata e pubblica».
E invece oggi ci ritroviamo di nuovo in un’Europa dove si combatte.
«Non è un caso che questo conflitto accada ora: sono sempre di meno coloro che vissero la guerra, e i valori e le tragedie di cui furono protagonisti stanno sfumando. Quindi è ancora più importante oggi ribadire che la guerra è orribile, ed è resa più orribile, lo dico anche da storico, da una cacofonia comunicativa che influisce su una opinione pubblica sempre più in difficoltà nel farsi un’idea oggettiva. In questi corsi e ricorsi della storia, allora, il libro può servire ai giovani per capire quello che successe, e anche il dopo: la sofferenza, le ferite fisiche e psicologiche, la solitudine di un bambino che aveva la sua famiglia, e che, rimasto orfano, con il fratello fu rimpallato da una parte all’altra, subì maltrattamenti, l’orfanotrofio, che fu un calvario, l’adozione, e poi la lontananza da parte dello Stato».
Cosa intende?
«La mancanza di una sorta di riconoscenza. Questo fece sì che Franco e gli altri sopravvissuti rimanessero sconfitti per tutta la vita, a livello politico e delle singole esistenze, e si sentissero per sempre “vittime”. Franco dal canto suo compì un lungo percorso, che lo portò a collaborare attivamente con l’Associazione nazionale vittime civili di guerra e ad andare oltre l’odio. Ma le ferite di Marzabotto erano parte di lui. Anche questo abbiamo voluto far capire ai giovani: dopo una guerra si ricostruisce, certo, ma il paesaggio più devastato, come sapeva Ungaretti, è quello che resta dentro di noi».