Giovanissimi allievi di scuole di danza, i volti, ma anche i corpi, di ballerini di tutte le età, i gesti, le espressioni, le azioni che formano “la cultura” del ballo, in “Dancing Paradiso” di Silvia Diamanti, reportage fotografico sulle balere della provincia romagnola in 48 foto in bianco e nero recentemente edito da Quinlan.
Nell’opera che la giovane fotografa bolognese, allieva di Guido Guidi, ha realizzato tra il 2017 e il 2019, gli spettacoli e le competizioni di danza, con i personaggi che li animano, sono documentati con uno stile diretto e al tempo stesso empatico. Scatti rubati il cui unico testo posto a corredo è una iniziale citazione dal film “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman.
«Sostenuta certamente da una forte curiosità verso i corpi e i volti, da una empatia per chi si ha davanti all’obiettivo», ha scritto Sergio Rotino. «Questo mette in campo Silvia Diamanti, lavorando su un bianco e nero rigoroso quanto ben studiato, capace di farsi racconto. con tanto di inizio, svolgimento e fine. È il risultato finale o uno dei possibili risultati finali, comunque quello che è più consono a raccontare la sua idea di fotografia, di umanità e, forse, di se stessa».
Diamanti, a cosa si deve la citazione iniziale del capolavoro di Bergman?
«Rispetto al consueto abbinamento Romagna-Fellini, è un accostamento insolito. Tra una ripresa e l’altra mi era capitato di rivedere “Il settimo sigillo” in un cinema d’essai. Da quel momento sul vetro smerigliato dell’obiettivo mescolavo l’immagine dei costumi da ballo dei principianti delle danze folk, rigorosamente in bianco e nero, con i triangoli delle tuniche nere dei protagonisti del film, quando nel fotogramma finale danzano con la morte stagliandosi come sagome contro il cielo cupo. Presto ho sentito un’analogia tutta personale anche di contenuti, sui temi della morte, della crisi spirituale, della ricerca di una fede, degli affetti, della rappresentazione teatrale, anzi della rappresentazione nella rappresentazione. Concluso il lavoro, il materiale che mi sono ritrovata mi è sembrato qualcosa di uscito dal passato, o da nessun tempo e nessun luogo. E restando in tema di cinema, mi viene in mente anche la pellicola di Tornatore, il piccolo teatro in “Nuovo Cinema Paradiso”»,
Perché l’hanno colpita gli anonimi protagonisti di “Dancing Paradiso”?
«Amo la fotografia di ritratto, mi sento attratta dall’aspetto di alcune persone in senso fotografico e sociologico, procedo d’istinto. Sono partita come un rabdomante in cerca di soggetti ben disposti a farsi ritrarre. Chi meglio, ho pensato, di coloro che sono pronti a esibirsi in uno spettacolo? Trovo gli ambienti marginali ricchi di suggestioni, carichi di segreti, per me connessi ad archetipi, legami inconsci».
Qual è il filo di questo racconto?
«Quello di un luogo della memoria, in bianco e nero, dove sbiadisce la traccia degli affetti vissuti; lì, soli o in coppia, in gruppo, in girotondo, si danza nella messa in scena dello spettacolo della vita. Ho scelto per l’immagine di copertina e come ultima della serie due immagini mosse/sfocate, venute così per incidente fotografico che poi si è rivelato importante non in senso stilistico, perché esprimevano un certo senso di fatalità che colpisce la vita e in buona parte anche la pellicola fotografica. Questa scelta voleva suggerire un’idea di circolarità che è propria del ciclo della vita».
Quanto conta in queste sue foto far emergere la differenza tra l’essere e l’apparire?
«Tantissimo: è proprio questo che le immagini di
Dancing Paradiso vogliono evocare. Ed è appunto uno dei temi cui accennavo sopra, quello della rappresentazione teatrale, della messa in scena, che è qualcosa che mi affascina da sempre. Come nel capolavoro di Bergman, teatranti e giullari del teatro ambulante, che attraverso il pittoresco, il travestimento, esorcizzano la paure».