Cesenatico, premio Moretti a Curi e Lujoi

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A Fausto Curi per la carriera e Lucilla Lijoi per la critica sarà consegnata la 15ª edizione del Premio Marino Moretti. Di Fausto Curi, professore emerito dell’Università di Bologna, dove ha insegnato Letteratura italiana contemporanea, scolaro di Luciano Anceschi, la giuria ricorda nella sua motivazione anche anche la «strenua militanza che lo ha visto, fra l’altro, fra i promotori del Gruppo 63 e fra i protagonisti della cosiddetta Neoavanguardia», nonché «il lungo legame con Cesenatico e con Casa Moretti».

Curi, quale importante novità rappresentò l’irrompere sulla scena poetica dei “crepuscolari” come Marino Moretti?

«Erano poeti che si erano stancati di leggere D’Annunzio, che si sentivano attivisti di una nuova poesia, e volevano scrivere versi all’opposto della sublimità di quelli dannunziani. Essi tendevano pertanto ad abbassare i toni, ad usare uno stile che prima di loro sarebbe stato considerato improprio, non degno della poesia. Moretti scelse senz’altro questa possibilità»

Risultati poetici quelli morettiani, lei ha sottolineato in “L’avanguardia e l’impoetico”: «non meno interessanti di quelli conseguiti da Govoni e Palazzeschi, e, soprattutto, più agevolmente acquisibili dal pubblico».

«Non si deve considerare Moretti um poeta minore. Ha un suo mondo, una sua capacità di esprimere, di dare nome agli oggetti della poesia. Dicendo: “Io non ho nulla da dire”, voleva smorzare radicalmente lo stile, il modo espressivo, volendo significare che si era detto troppo, con toni troppo alti, eccessivi. Lo dice e lo ripete, perché è un verso fondamentale che lo rappresenta al meglio come poeta».

La nuova edizione de “L’Andreana”, è il segnale di una maggiore attenzione critica che si muove attorno al Moretti prosatore?

«Se si deve essere giusti con Moretti, io avrei scelto di editare piuttosto qualche sua opera in versi, che è veramente importante, della pur gradevole “Andreana”, che appare oggi come un opera minore, che può interessare per la sua ambientazione il pubblico romagnolo».

Lucilla Lijoi, forlimpopolese, riceve il Premio Moretti per Il sonatore sveglio. Alberto Savinio (1933- 1943) edito da Mimesis.

Lijoi è ricercatrice all’Università di Genova e autrice di contributi su Pavese, Sciascia, Bassani e altri autori del Novecento.

Come la ricerca fa emergere la figura di Savinio nella cultura del Novecento?

«Il semplice elenco delle arti e delle attività culturali in cui il genio di Alberto Savinio/Andrea De Chirico (1891-1952) ebbe modo di esercitarsi con indiscussa intelligenza basterebbe per collocarlo tra le personalità più significative del secolo anche europeo. “Sono una centrale creativa”, diceva di sé. Ma è proprio in questa molteplicità pirotecnica, animata costantemente da uno spirito ironico e corrosivo, lo sguardo antidogmatico sulla realtà che ha permesso a Savinio di muoversi nei meandri della prima metà del Novecento, indagando le contraddizioni e le zone d’ombra della sua epoca, producendosi tanto nella critica all’assolutismo nazifascista quanto nella proposta pedagogica di un relativismo sorretto dalla consapevolezza che, in democrazia, “nessuna idea è prima”».

Il suo originalissimo “neoumanesimo surrealista”, sfociò, «in un sostenuto e programmatico antifascismo». In che modo?

«Con l’incrinarsi del consenso intellettuale intorno al regime all’inizio degli anni Quaranta, anche Savinio – che della censura fascista subì le conseguenze in prima persona – cominciò a costruire una strategia del dissenso sempre più marcata, giungendo infine a immaginare (in narrativa, pittura e musica) soluzioni artistiche sorrette da una mentalità da lui definita “copernicana”: l’uomo “copernicano” mette se stesso – e non il duce/Dio – al centro del proprio universo, percependosi come un organismo autarchico, lucidamente critico e sicuro di sé; allo stesso tempo, tale “uomo-mondo” è inserito in un sistema in cui la libertà individuale è garantita dall’esercizio intelligente della democrazia. “Copernicano” significa dunque, necessariamente, “antifascista”, mentre “surrealismo” – scriverà Savinio nel 1945 – significa prima di tutto “supercivismo”: “Nel surrealismo mio si cela una volontà formativa e, perché non dirlo? Una specie di apostolico fine”».

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