Cesena, strage in stazione: capotreno salvato da un cambio turno

Per 85 persone il 2 agosto 1980 fu il loro ultimi giorno di vita, a seguito del terribile attentato dinamitardo alla stazione di Bologna. Per altre 200, rimaste ferite, fu l’inizio di sofferenze fisiche e psicologiche che in molti casi non sono state mai superate. Per molti più cittadini fu uno shock, aggravato negli anni seguenti da muri che hanno impedito di accertare fino in fondo la verità, nonostante le condanne degli attentatori. Ma per qualcuno quella che poteva essere una data drammatica dal punto di vista personale si trasformò in un pericoloso scampato per una casualità fortunata. Uno di questi Mario Amici, nato a Bagnile nel 1949 ma residente da oltre quarant’anni a San Giorgio. Quando si parla di quella strage, il suo commento è da brividi: «Non era la mia ora di morire». Chi crede nel destino può ben capire perché dica così: «Allora lavoravo come “capotreno” nelle Ferrovie dello Stato, con base a Rimini, e il 2 agosto 1980 dovevo essere alla stazione di Bologna proprio all’ora dell’esplosione. Ma ebbi un problema personale e così chiesi e ottenni di cambiare turno: fui spostato sulla tratta diretta ad Ancona». Oggi Amici gestisce un negozio di oreficeria e orologi a San Giorgio, ma dal 1972 e fino al 1992 lavorò per le Ferrovie dello Stato, dopo avere sostenuto un concorso nel 1970. Prima - racconta - ci entrò «come conduttore, cioè bigliettaio», ma presto riuscì a «diventare capotreno», come sognava, e rimase volutamente sempre in quel ruolo. La sua prima assegnazione fu a Piacenza e in seguito fu trasferito a Rimini. Era quindi un dipendente delle Ffss da 8 anni, quando in modo del tutto casuale sfuggì al bagno di sangue a Bologna. Quelli erano anni molto caldi per gli attentati terroristici, che sentiva incombere sul suo lavoro e lo condizionarono. Tanto che - riferisce - dopo la strage sul treno Italicus (attentato neofascista avvenuto nel 1974, che causò 12 morti e 48 feriti, ndr), «non volli più prestare servizio lungo tratte ferroviarie in galleria, come quella da Bologna e Firenze». L’attentato sull’Italicus era infatti avvenuto proprio in uno di quei tunnel, che erano molto temuti. Amici confida però che dovette fare qualche strappo a quella regola che si era dato, con grande paura in qualche viaggio «nel periodo in cui c’erano gli attentati degli indipendentisti in Alto Adige». Quel bagno di sangue a Bologna, anche se per fortuna non ne fu coinvolto direttamente, ha lasciato comunque il segno sulla sua anima, tanto che ha raccontato con una poesia in dialetto quei terribili momenti. Si intitola "I 2 d’Agost dl’80" e questo è il testo: Zénta pronta a parti par al vachénzi, cvaicadùn cl’e andé a truvé parint o amigh. In tla séla d’aspèt, lizénd e giurnél fasénd cvatar ciacrì cun d’jamigh Paroli crusédi par pàse e témp ut chésca e zil adòs Una bota treménda, trocal, calznèz un fòm strét, un svéd gnint. U s’fa fadiga néca a respiré, lamint da tot i chint, cvaicadun un s’mov piò. Zénta cla cor, la zérca d’aiuté chi por sgrazì l’è una cursa contra e temp, par paréc l’è trop terd E treno ferm int’è prém bineri cun al lamiri toti inturcidi, un disastar. Feroviir, puliziòt, zénta nurméla nisùn j’à capì cvél cle suzèst. Una bomba mésa int’la séla d’aspèt la j’à fat 85 murt e un mocc ad fri, Incora àn savém e parché tra depistèg e sarvizi devié, l’è un casén E nun c’à sém ad testa dura, aspitém, néca se al savém che à n’è savrém mai