Che sia da leggere, da vedere, da ascoltare, il fascino del giallo si conferma di grande interesse anche a teatro. Al Comunale di Cesenatico sono andati a ruba i biglietti per “Testimone d’accusa” in scena stasera alle 21. Scritto da Agatha Christie (1890-1976), diretto da Geppy Gleijeses (già applaudito in “Servo di scena”) lo spettacolo ha debuttato un mese fa e ad ogni recita tiene incollato un pubblico, adulti come giovani. Merito del sapiente meccanismo di scrittura e del cast che lo sostiene, a cominciare dall’attore romano Paolo Triestino (1959) con Vanessa Gravina e Giulio Corso, e agli altri otto interpreti Yaser Mohamed, Antonio Tallura, Sergio Mancinelli, Bruno Crucitti, Paola Sambo, Michele Demaria, Erika Puddu, Lorenzo Vanità.
Un uomo viene accusato di omicidio. Citata in giudizio per testimoniare, la moglie del sospettato decide di assumere un ex avvocato per difendere il marito, fino al colpo di scena. Dal racconto “Testimone d’accusa” (1925), la stessa scrittrice trasse un adattamento teatrale, allungando il finale con un coup de théâtre. Il regista Billy Wilder nel 1957 ne ricavò un film con Charles Laughton, Tyrone Power, e Marlene Dietrich; nel 2016 la tivù britannica ha prodotto una miniserie in due puntate.
Triestino, di solito lei è alle prese con commedie contemporanee; come ci è finito in un classico di un secolo fa?
«Ero in tour con un altro spettacolo, mi hanno chiamato per sostituire l’indisposto Giorgio Ferrara; ciò a due settimane dal debutto. È stato molto faticoso, se non fosse stato per la collaborazione degli aiuti registi non ce l’avrei fatta. Fortunatamente ho una memoria di ferro, in 12 giorni ho imparato tutto, dopo una full immersion di studio del testo».
Il suo ruolo nel cinema fu interpretato da uno dei grandi attori inglesi del passato come Charles Laughton (1899-1962). Quale impressione?
«Vidi a suo tempo il film di Billy Wilder con Laughton, mi era piaciuto tanto, ma non l’ho riguardato; non volevo togliere due ore allo studio mnemonico, consapevole che il confronto con quel mostro sacro sarebbe stato perdente. Ho dimenticato quella sua interpretazione, cercando di seguire ciò che sentivo giusto e ascoltando il regista. Adesso posso dire che mi diverto, anche perché sono in una splendida compagnia, con attori uno più bravo dell’altro, e lo spettacolo ha una grande presa sul pubblico».
Nel suo passato, prima di cinema, di serie e film in tivù, anche lei ha fatto teatro classico in compagnia con Gabriele Lavia. Come si è formato?
«Feci l’esame per entrare in Accademia nel 1977, e mi bocciarono; poi a 21 anni cominciai a lavorare con Lavia fino ai 27 anni in spettacoli come “Il Principe di Homburg”, “I Masnadieri”, in “Irma la dolce” di Calenda. Devo agli anni con Lavia la formazione necessaria all’attuale ruolo di sir Wilfrid Robarts, un principe del foro; dalla voce al diaframma a una certa maestosità, gli insegnamenti di Gabriele mi sono tornati utilissimi adesso».
Qual è la forza di Agatha Christie oggi?
«È la potenza delle storie scritte bene, il senso straordinario del colpo di scena. In questo finale ce ne sono quattro, uno dopo l’altro. Non c’è psicologia, ma una capacità di scavare a fondo nelle paure umane, nel meccanismo del thriller che lei padroneggia in maniera straordinaria. Dopo lo spettacolo, in camerino mi hanno chiesto titoli di altri suoi romanzi, da leggere».
Come continua la sua stagione?
«In estate debutto al Mittelfest di Cividale con un mio adattamento del romanzo francese “Les gratitudes” di Delphine de Vigan, con Lucia Vasini e Giulio Corso. Da 20 anni sono anche produttore dei miei spettacoli (prima in coppia con Nicola Pistoia). Amo testi dove si parla di oggi con il tono di commedia amara».
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