Cesena, «Le strategie difensive in Romagna vanno ripensate»

L’accademia si mette al servizio della comunità. L’Università di Bologna lo ha fatto ieri con il convegno “La storia delle acque in Romagna: dalla natura alle tecnologie” al Campus di Cesena, «un luogo simbolo di quanto successo a maggio», ha sottolineato il rettore Giovanni Molari, ricordando come sin dai primi giorni dopo l’emergenza Unibo si è attivata per portare il proprio contributo di conoscenza nella gestione delle conseguenze dell’alluvione e della riprogettazione del territorio. «Mi sarebbe piaciuto arrivare a questo appuntamento – interviene il sindaco Enzo Lattuca – nelle condizioni di poter dire che anche noi decisori politici abbiamo alzato la testa dall’emergenza per cominciare a progettare il futuro, ma purtroppo abbiamo perso un paio di mesi per strada e non siamo ancora a quel punto».
La storia del territorio
È la storia del territorio romagnolo, delle bonifiche e del suo rapporto con le acque il punto di partenza della riflessione. Roberto Balzani, presidente del sistema museale di Ateneo, ha ripercorso la storia paesaggistica del territorio romagnolo a partire da Lucio Gambi e da come dal suo lavoro emergesse con chiarezza quanto della Romagna di oggi non ci sia più nulla del territorio per come si presentava nel passato. Quella di questo territorio è infatti una storia di trasformazioni che comincia con le centuriazioni romane e che prosegue con le bonifiche che si sono succedute nei secoli fino al novecento. Bonifiche che hanno cambiato non solo il paesaggio ma anche la società romagnola. Di questo passato, dell’impegno che ha richiesto questa trasformazione del territorio anche in termini di coinvolgimento di soggetti pubblici e privati, dell’impatto che ha avuto in termini di possibilità di sviluppo del territorio, «c’è chiara traccia nella storia ma non c’è più traccia nella memoria collettiva». All’accademia Balzani affida il dovere di «uno sforzo di divulgazione», ma richiama anche la necessità di una «capacità politica di progettazione del territorio se a questo si vuole dare un futuro».Tra siccità e alluvioni
Il contributo della geomatica in questo processo di analisi del passato, di progettazione ma anche di monitoraggio degli eventi è al centro dell’intervento del professore Gabriele Bittelli. Mentre il docente Armando Brath riporta il dibattito sul tema della siccità, «un problema che rischia di uscire dalla nostra memoria ma che rimane attuale». Negli ultimi 10-15 anni a più riprese la diga di Ridracoli è scesa a livelli così bassi da far prospettare la necessità di un razionamento dell’acqua. Un fenomeno che insieme all’alluvione di maggio ha spesso chiamato in causa il cambiamento climatico, ma se questo è innegabile è più complessa di quanto appare la capacità di prevedere in che modo questo impatterà su temperature e piogge. Quello che invece è certo è che quanto accaduto a maggio in Romagna è un evento «eccezionale» e lo è anche per la sua «notevole complessità», dovuta alla storia del territorio al fatto che questo sia stato nella storia profondamente trasformato dall’uomo. Tra gli elementi di complessità Brath cita il ruolo della rete dei canali di bonifica: «le rotte dei fiumi naturali si sono infilate nella rete di bonifica, così a quelle naturali si sono aggiunte le piene indotte generate dai canali di bonifica». Anche il Canale emiliano romagnolo che «nella fase finale ha avuto un ruolo positivo» nel consentire di scaricare le acque verso il Po, nella fase iniziale, ha spiegato Brath, ha avuto un ruolo negativo, finendo suo malgrado con lo spostare gli effetti della rotta del Lamone verso Ravenna.La soluzione è un mix
I dati delle piogge cadute i quei giorni, i livelli dei fiumi e delle piene raccolti dai sistemi della Protezione civile insieme alle immagini aeree di Cesena e Forlì accompagnano il racconto di Piero Tabellini, responsabile del settore sicurezza territoriale e protezione civile Romagna, e hanno aiutato a ripercorrere quei giorni. Alla luce di quanto accaduto a Forlì-Cesena e nel resto della Romagna, quello che occorre, ha detto Armando Brath, «è un ripensamento generale della strategia difensiva mettendo in atto un mix di soluzioni». Nei decenni i corsi d’acqua sono stati trasformati in stretti percorsi fluviali, ma «un arretramento degli argini con continuità è impensabile, si possono progettare interventi puntuali». A questi vanno sommati casse di laminazione e «bacini montani», utili per raccogliere le acque anche in ottica siccità. Brath richiama anche la necessità di analizzare le interconnessioni con la rete di scolo di bonifica e quella fognaria per risolvere le criticità, e sottolinea l’importanza di ragionare in termini di costi-benefici prevedendo scenari di esondazione controllata. «È quello che in modo spontaneo è accaduto nel Ravennate con il canale Magnii. La scelta di allagare i campi della Cab è stata importante anche perché apre a questa possibilità come strategia difensiva per il futuro».
“L’università al servizio del territorio” è invece il titolo della tavola rotonda moderata da Alberto Credi, prorettore alla ricerca dell’Ateneo di Bologna a cui hanno partecipato i referenti Unibo verso la struttura commissariale Attilio Castellarin, referente del gruppo di lavoro idrologia e ingegneria, Giovanni Dinelli, per le problematiche agronomiche, Alessandra Costanzo, per le telecomunicazioni d’emergenza, Matteo Berti per le frane.
Dell’esperienza del post alluvione sottolinea l’opportunità che questa ha rappresentato in termini di accesso ai dati e come quanto accaduto abbiamo messo in luce «che può essere un intero sistema ad andare in crisi» e questo rafforza quanto sia importante non andare in cerca di una unica soluzione omogenea per tutti i territori ma un mix di soluzioni diverse. L’importanza delle telecomunicazioni in un contesto di emergenza ha sottolineato Costanzo trova applicazione, grazie al cosiddetto “Internet of thing”, anche in termini di monitoraggio dell’evoluzione degli eventi e ad esempio sulla situazione franosa.
E sul tema frane Berti va dritto al punto: «È stata una catastrofe. Al punto che stiamo ancora finendo di contare le frane che hanno colpito il 5% del territorio, una percentuale altissima». Le quantifica in decine di migliaia e spiega che sono fondamentalmente di due tipi: «La maggior parte sono di natura superficiale, qui il consolidamento non pone problemi tecnici particolari. Poi ci sono quelle in roccia più profonde, considerate rare, e in questi casi (alcune centinaia, tra queste ad esempio quella di Casola Valsenio, ndr) si dovrà ragionare anche in termini di convivenza con il rischio e sarà fondamentale il monitoraggio e la collaborazione della popolazione». Sul fronte agricolo Dinelli sottolinea l’importanza di riprendere le buone pratiche del passato proiettandole nel futuro, tra queste va ricreata la rete minuta di scolo che il passaggio all’agricoltura estensiva negli anni ha cancellato.