Cesena, la marcia della pace riparte da Covid e Ucraina

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Una marcia della pace molto partecipata e testimonianze da brividi, attraverso le voci chi ha vissuto la tragedia del Covid all’ospedale Bufalini e l’orrore della guerra in Ucraina, hanno riempito di riflessioni e di impegno il primo giorno del nuovo anno. Nel primo pomeriggio, oltre 500 persone hanno sfilato da San Domenico fino al duomo, col vescovo Douglas Regattieri in testa al corteo, aperto da uno striscione che, rilanciando le parole di papa Francesco, diffuse anche con altoparlanti, recitava: “Nessuno può salvarsi da solo. Ripartire dal Covid-19 per tracciare insieme sentieri di pace”.

Il vescovo dei tre sguardi

Proprio il binomio formato da pandemia e conflitto in Ucraina è stato al centro dell’incontro che si è tenuto all’interno della cattedrale, dove il vescovo ha evidenziato il filo che lega questi due temi: «Dobbiamo lasciarci cambiare il cuore dalle emergenze che abbiamo vissuto, cambiando i nostri parametri di interpretazione della realtà». Come? Con tre sguardi diversi: quello «alla pari, cioè non di chi guarda dall'alto ma di chi con umiltà si china per stare allo stesso livello dell'altro»; quello che evita di essere «deviato» verso «l’indifferenza»; quello che invece è «in avanti, verso il futuro», e a questo proposito monsignor Douglas ha citato i discorsi che faceva Martin Luther King, che avevano proprio questa caratteristica.

La disperazione per il Covid

Ma sono state cinque testimonianze fatte dai testimoni laici a fare entrare nella carne viva, e lacerata, di queste sfide. La prima a prendere la parola è stata un’infermiera del Bufalini, di nome Giulia, che ha lavorato nel reparto Covid. Ha voluto condividere la propria fragilità, confidando che in certi momenti le sene che ha visto hanno provocato in lei una «perdita di speranza» e la «paura della morte». Ha raccontato la «sofferenza» patita «per l'impossibilità di comunicare con i pazienti, se non con gli sguardi». Ma ha poi aggiunto che proprio in quei momenti così drammatici ha stretto i legami con i colleghi e ha conosciuto una persona che l’ha sostenuta ed è diventata poi suo marito.

Rete di accoglienza

Dal virus sanitario la riflessione si è poi spostata su quello dell’invasione dell’Ucraina e sull’antidoto, tutt’altro che semplice, costituito dall’accoglienza. È stato Paolo Baldisserri, del gruppo “Famiglie per l'accoglienza di Cesena”, a introdurre l’argomento, spiegando come sia nata una rete per l’ospitalità di circa 50 profughi in fuga dall’Ucraina. Ha evidenziato che ci sono da superare ostacoli, come il fatto che «chi accogli non è come pensi che tu sia» e che «davanti a persone ferite c'è bisogno di cambiare». Anche per piccole cose a cui inizialmente non si pensa. Come è accaduto quando due auto con famiglie di profughi sono uscite dalla A14 e sono state accompagnate a Cesenatico, da chi era disposto ad accoglierle. Una, allergica ai gatti, ha subito scoperto che la prima preoccupazione della donna ospitata era quella di non separarsi dal suo gatto, e così ha dormito dentro l’auto la prima notte. Bernardetta, dei “Memores Domini”, ha invece riferito come la lingua russa, imparata negli anni in cui aveva vissuto in Siberia, si sia rivelata utile nelle lezioni di lingua italiana fatte ai profughi.

Le due mamme ucraine

Ma sono stati soprattutto i racconti di due mamme fuggite da sotto le bombe a fare venire la pelle d’oca ai presenti. La prima di queste due donne, con la voce rotta dal pianto, ha spiegato di essersi «svegliata il 24 febbraio, alle 5, perché stavano bombardando l’aeroporto» e di essersi rifugiata nel seminterrato, con suo figlio 17enne, finché lui ha detto che «non ce la faceva più, quando nel giorno del suo compleanno ha saputo che un suo amico e sua mamma erano stati uccisi mentre viaggiavano su un’auto». A quel punto, con l’appoggio di una chiesa, sono riusciti a partire il 23 marzo, arrivando il 28 a Bagnarola, dove i parrocchiani gli hanno «dato tutto», aiutandoli anche a eseguire «un intervento chirurgico su una gamba della nonna». La seconda profuga che ha parlato in duomo ha trasportato tutti dentro la mostruosità della guerra, con un resoconto crudo: «Siamo stati costretti a lasciare la nostra casa dopo un mese di bombardamenti. Non avevamo più cibo, né elettricità. Una notte un razzo ha colpito la nostra casa, ma miracolosamente siamo sopravvissuti. Abbiamo passato la notte in cantina. Alla fine, abbiamo deciso di partire perché abbiamo bambini piccoli. Arrivati qui, siamo stati aiutati da tante persone col cuore grande, che sono diventate non solo nostri conoscenti ma parenti». Entrambe le donne hanno ringraziato mille volte per l’assistenza che continuano a ricevere, che ha consentito a loro e ai figli di acquisire un’autonomia linguistica, scolastica e anche lavorativa.

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