Centesimino da riscoprire sotto alla Torre di Oriolo

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C’è un angolo di Romagna dove il vino rosso più importante non è necessariamente il Sangiovese. All’ombra della torre quattrocentesca di Oriolo, un rosso dalla storia contemporanea ma abbastanza lunga da costituire tradizione è in cerca di riscatto, è il Centesimino. Iscritto all’albo genetico delle uve coltivabili solo dal 2004, questo vitigno ha alle spalle un lungo percorso e anche estimatori di rango, proprio nei primi anni duemila fu lo stesso Luigi Veronelli a consigliare qualche produttore del territorio di dedicarsi a questo vino. Ma anche a trovargli un nome. Già, perché il Centesimino non si è sempre chiamato così. Savignon rosso, è stato quello più usato, ma storpiato in tanti modi: savignone, savignon, savig. E sulle colline di sabbie gialle e argille azzurre di Oriolo ci era arrivato, forse, per caso durante l’ultima guerra mondiale. A portarglielo fu un commerciante di vino faentino, Pietro Pianori detto Zantesmèn, italianizzato appunto Centesimino, che nella sua casa ottocentesca faentina aveva da sempre guardato maturare i frutti di una vite portata lì forse per scampare alla fillossera e che ora, per scampare alle bombe, sarebbe stata portata nel podere in collina assieme a tutta la famiglia. Lì quell’uva ha trovato il suo terreno migliore e si è poi moltiplicata, condivisa fra tutti i poderi intorno, per produrre dando quel vino rosso brillante, dal naso di rosa e ribes, e anche un poco amabile, giusto per le feste in famiglia.

Centesimino oggi

La storia del Centesimino arriva all’oggi, e grazie all’associazione di agricoltori e vignaioli Torre di Oriolo si rilancia. Se i pionieri furono due produttori come Poderi Morini che imbottigliò le prime 2600 bottiglie di Centesimino nel 2003, Traicolli la versione secco e Rubacuori quella passito, e Leone Conti, con il suo Arcolaio, «oggi sono in sei i produttori soci dell’associazione Torre di Oriolo che lo producono – spiega il presidente Mauro Altini, vignaiolo lui stesso –: Leone Conti stesso, La Sabbiona, Ancarani, Paolo Zoli, La Spinetta, San Biagio Vecchio». Sono stati loro a dare vita domenica scorsa a un’interessante degustazione di diverse annate di Centesimino, guidata dal sommelier sommelier Gilles Coffi Degboe e con la presenza dell’enologa Marisa Fontana che a lungo ha studiato la storia e il dna di questo vitigno. Dodici bottiglie dalla vendemmia 2019 alla 2010, che hanno riservato alcune piacevoli sorprese e la possibilità di rivalutare un vino in questo caso davvero “di nicchia”, non fosse altro per la piccola quantità prodotta su una trentina scarsa di ettari vitati. A caratterizzare il Centesimino è certamente il quadro aromatico che unisce un evidente sentore di rosa e viola, a tratti anche lavanda, a un fruttato di piccoli frutti rossi (riconoscibilissimi nel fresco Monte Tarbato 2019 e anche 2018 di San Biagio Vecchio). Il sorso è sostenuto da una tannicità non invadente e una buona quota di alcol, frutto di un’alta presenza di zuccheri all’origine. Quello che la degustazione ha svelato è che questa uva si difende bene nelle annate più piovose e fredde, come la 2016 (dove brilla l’etichetta della cantina Ancarani) e a sorpresa la 2014 (con una versione più che convincente de La Spinetta), patisce invece i caldi torridi sempre più frequenti, come ad esempio la 2017. Dimostra inoltre una buona longevità (ancora perfettamente equilibrato l’Arcolaio 2013 di Leone Conti, fresca e dai profumi originari ancora ben definiti il 2010 de La Sabbiona) che gli consente di acquisire anche complessità con note terrose e leggere speziature. Il passito resta una versione piacevole e tutt’altro che stucchevole(suadente la versione 2013 di Paolo Zoli).

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