Cave, allarme di Legambiente per il Piano estrattivo a Forlì

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Delle 4.168 cave autorizzate in Italia (in calo del 15% rispetto al 2017) sono 168 quelle dell’Emilia-Romagna. E di quelle 14.141 dismesse o abbandonate in Regione ce ne sono 57. È quanto emerge dal Rapporto Cave 2021 realizzato da Legambiente che dal suo osservatorio giudica con “enormi preoccupazioni” il Piano estrattivo del Comune di Forlì, che aumenterà il consumo agricolo mettendo in pericolo il sito ambientale dei Meandri del Fiume Ronco a Magliano.

Ma c’è anche un esempio virtuoso in Romagna: è quello del Parco della Cava, a Poggio Torriana (Rimini), realizzato grazie a un’intesa tra la Regione e la Provincia e che ha avuto il suo taglio del nastro nel maggio del 2000. Quella è un’esperienza che ha consentito il recupero dell’area estrattiva in un luogo particolarmente rilevante per la vicinanza del giacimento fossilifero. Legambiente ha iniziato nel 2008 a monitorare il settore delle cave italiane. Il quadro aggiornato evidenzia un calo di quelle autorizzate (tra cui ci sono anche quelle ‘addormentate’ perché in assenza di attività estrattiva in corso) che va di pari passo con la crisi del settore edilizio: sono 4.168 contro le 4.752 del Rapporto 2017 e le 5.725 di quello 2008 (- 37%). Le 14.141 cave dismesse, rilevate incrociando i dati forniti dalle Regioni e dalle Province Autonome con quelli di Istat, invece aumentano rispetto alle 13.414 del 2017. Spiccano i dati della Lombardia, con oltre 3.000 siti chiusi, ma anche della Puglia (2.522) e della Toscana (2.400). Mentre Sicilia, Veneto, Puglia, Lombardia, Piemonte e Sardegna sono le Regioni che presentano un maggior numero di cave autorizzate, almeno 300 in ognuna al momento dell’elaborazione dei dati. I Comuni con almeno una cava autorizzata sono 1.667, il 21,1% del totale dei Comuni italiani. Di questi sono 1.192 i Comuni con 1 o 2 cave autorizzate sul proprio territorio, mentre 54 Comuni hanno più di 10 cave. Il settore, così delicato per gli impatti e gli interessi, è governato a livello nazionale da un Regio Decreto di Vittorio Emanuele III del 1927. Da allora non c’è più stato un intervento normativo che determinasse criteri unici per tutto il Paese. Legambiente denuncia la mancanza di un monitoraggio nazionale della situazione o indirizzi comuni per la gestione e il recupero. Con il Dpr del 1977 le funzioni amministrative relative alle attività di cava sono state trasferite alle Regioni, e gradualmente sono state approvate normative regionali a regolare il settore. «Purtroppo, ancora in molte Regioni si verificano situazioni di grave arretratezza e i limiti all’attività estrattiva sono fissati in maniera non uniforme», denunciano dall’associazione ambientalista. Le entrate percepite dagli enti pubblici con l’applicazione dei canoni sono estremamente basse in confronto ai guadagni del settore. Il totale nazionale di tutte le concessioni pagate nelle Regioni, per sabbia e ghiaia, è di 17,4 milioni di euro, a cui bisognerebbe sommare le entrate della Sicilia che variano in funzione della quantità cavata, oltre a una piccola quota derivata dall’ampiezza dei siti estrattivi, come avviene in Puglia. Cifre bassissime rispetto ai 467 milioni di euro all’anno ricavati dalla vendita. Se venisse applicato un canone, come avviene in Gran Bretagna, pari al 20% dei prezzi di vendita, gli introiti delle Regioni per l’estrazione di sabbia e ghiaia salirebbero a 93,5 milioni circa. La sfida dei prossimi anni è la rigenerazione delle città, la riqualificazione energetica e anti sismica del patrimonio edilizio; in questa prospettiva si può rilanciare il settore delle costruzioni puntando su qualità, sostenibilità, recupero e riciclo dei materiali. Per Legambiente sono tre gli obiettivi principali da raggiungere: rafforzare la tutela del territorio, stabilire un canone minimo nazionale per le concessioni di cava e ridurne il prelievo attraverso il recupero degli inerti provenienti dall’edilizia e dal riciclo di rifiuti da utilizzare in tutti i cantieri.

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