Bravi, solerti e coraggiosi. Ecco gli uomini di Testa

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Dal 1909 al 1915 una catena impressionante di incendi si abbatte sul territorio riminese. La solerzia e la bravura nell’azione di soccorso del nuovo apparato pompieristico, caparbiamente voluto dal comandante Elia Testa, fanno salire alle stelle l’entusiasmo della popolazione. Della efficienza operativa delle guardie-pompieri troviamo molteplici testimonianze nei periodici locali. Le cronache de L’Ausa, Il Momento e il Corriere riminese sono piene di compiacimento e di gratitudine per «la saggia riorganizzazione del corpo» e per «la felice scelta del personale». Una sintesi di questo consenso collettivo ce la fornisce L’Ausa il 29 aprile 1911: «I frequenti incendi avvenuti in questi ultimi anni e la prontezza, l’agilità e il coraggio spiegati dai nostri bravissimi pompieri sotto la guida del comandante tenente Elìa Testa e del brigadiere Vivarelli hanno dimostrato la opportunità della istituzione di questo corpo e la sua sapiente organizzazione». Anche La Riscossa, che non nutre troppa simpatia per l’ispettore e per le “sue” guardie-pompieri – quando queste, deposte le pompe, assumono il ruolo e il cipiglio del vigile urbano – non può fare a meno di lodarli. Nobili parole, per i «bravi pompieri», le esprime sia in occasione dell’incendio al teatro Vittorio Emanuele del 10 febbraio 1912, che in seguito all’allucinante “braciere” di Morciano di domenica 19 maggio 1912. In questa seconda sciagura il giornale repubblicano attesta la grande «prova di coraggio e di bravura» degli uomini di Testa. Senza la loro decisa e sotto certi aspetti temeraria azione i danni sarebbero stati enormi, perché il fuoco originato nel negozio di merceria e coloniali dei fratelli Mancini, si sarebbe propagato a tutto il caseggiato distruggendo sicuramente buona parte del paese. «L’opera dei pompieri – leggiamo su il Corriere riminese il 22 maggio 1912 – si svolse rapida, alacre e coraggiosa ( ... ) scalando i tetti degli stabili vicini, attaccarono il fuoco, penetrarono negli ambienti incendiati, che apparivano veri e propri bracieri, soffocando le fiamme, tagliando muri che pericolavano, abbattendo pareti sotto un grandinare di soffitti crollanti. Essi avanzavano dalle due estremità protetti dai getti d’acqua, mentre le fiamme d’ogni parte apparivano minacciose, tentando di strappare all’azione distruttrice le merci, e qualche valore che era ancora possibile di salvare». Uno scenario proprio da incubo. Queste imprese di generoso altruismo non sono casi isolati, si ripetono ogni qual volta c’è da affrontare il fuoco. Come, per esempio, nell’agosto del 1912, in seguito al «violentissimo incendio» del mobilificio di Alessio Magrini, a Viserba, quando i pompieri «con la prontezza e l’abnegazione che li distingue» riescono a limitarne i danni (Corriere Riminese, 14 agosto 1912); o nel rogo della fabbrica di aratri di Giuseppe Brigliadori, sulla via Flaminia, il 10 settembre del 1913. In questa circostanza, a detta del Corriere Riminese del 17 settembre 1913, «mercé l’energica opera prestata dalla squadra di pompieri agli ordini dell’Ispettore Testa, il fuoco venne in breve domato». Per non parlare poi dell’incendio dell’Hotel Hungaria: Il Giornale del popolo, del 13 gennaio 1915 nel riferire questo sinistro esaltava l’opera dei pompieri e del loro comandante scrivendo addirittura di «sforzi sovrumani». Già, gli «sforzi sovrumani». Come non ricordare quelli compiuti durante l’inondazione del 23 settembre 1910. Quel giorno il Marecchia, l’Ausa e il Mavone rompevano gli argini e immergevano la città nell’acqua e nel fango: solo le due piazze e un tratto di corso d’Augusto si salvavano dall’impetuosa fiumana. Un disastro! In alcuni punti l’acqua raggiungeva i due metri e mezzo di altezza. Un’alluvione di tali proporzioni non si era mai vista. Ebbene, anche in quella calamità l’opera di soccorso dei pompieri era ammirevole oltre ogni encomio. Tanto lodevole che nella seduta della Giunta comunale del 18 settembre 1911 si deliberò di consegnare attestati di merito alle guardie-pompieri Federico Macchiavelli, Giuseppe Felcher, Angelo Sinibaldi, Ilario Tortosa, Fausto Pioppi, Michele Signifredi, Sante Catelani, Adolfo Maini, Aristodemo Protti, Giulio Montuschi, Davide Fambri; e ai pompieri volontari Edoardo Morelli, Attilio Perazzini e Domenico Para (Relazione sull’opera prestata dal capo delle guardie-pompieri per le inondazioni del 23 settembre e del 31 ottobre 1910). Sempre “bravi”, “solerti” e “coraggiosi” gli uomini di Testa. I loro atti non finiscono mai di stupire. Si fanno apprezzare per l’energica e generosa azione sia nel reprimere le fiamme, sia nel circoscrivere il fuoco o nel limitare l’entità dei danni. Lodevoli non solo con le pompe e gli idranti, ma anche nell’opera di sgombero dei locali, di recupero delle suppellettili, di abbattimento delle pareti e dei soffitti pericolanti, di rimozione delle macerie e di puntellamento delle travature. Tutte incombenze delicate e pericolose che i pompieri eseguono sempre da solitari protagonisti, proprio come prescrive il loro Regolamento, che ha opportunamente eliminato l’“aiuto” confusionario dei civili, tenuti lontani dalle fiamme attraverso il prezioso servizio d’ordine di carabinieri, guardie di pubblica sicurezza e soldati. Pioggia di elogi, dunque, all’ispettore e ai “suoi” pompieri, ma anche al Municipio per «avere costituito un corpo degno della missione che gli è affidata e dell’aspettativa della cittadinanza» (Relazione della Giunta municipale al preventivo 1910 in VGCR, 1909 e L’Ausa, 4 marzo 1911).

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