Tra i maggiori direttori europei della fotografia, Renato Berta, svizzero nativo di Bellinzona, sarà questa sera (ore 21.30) al cinema Astra per accompagnare l’anteprima nazionale di Le grand chariot, proposto quale omaggio a Philippe Garrel. Per lui, che ha all’attivo una prestigiosa carriera, iniziata alla fine degli anni Sessanta con Alain Tanner e gli autori del nuovo cinema svizzero (Claude Goretta e Daniel Schmidt) proseguita in Francia con, tra gli altri, Louis Malle (per Arrivederci ragazzi ha vinto il César per la fotografia nel 1988) e Alain Resnais (da Smoking no smoking a Mai sulla bocca), e segnata da collaborazioni continuate con Danièle Huillet e Jean-Marie Straub, Amos Gitai e Manoel De Oliveira, non è la prima volta a Bellaria.
«Ci ero stato molti anni fa in giuria, assieme a Vittorio De Seta e ci sono tornato l’anno scorso per uno stage con dei ragazzi. Ragazzi che reincontrerò quest’anno per confrontarmi sui lavori svolti».
Come è stato lavorare con Philippe Garrel?
«Sempre stimolante.
Le grand chariot è il quarto film fatto assieme. Si può dire che Garrel è tra gli ultimi autori della Nouvelle Vague, un po’ più giovane dei padri fondatori, ma ben legato ai quei principi. Gira in una maniera tutta sua, seguendo l’ordine cronologico della vicenda e non, come si fa normalmente, secondo un piano di lavorazione, stilato per scene e ambienti. E si ostina a volere utilizzare la pellicola in 35 mm».
Per lei cambia qualcosa girare in digitale o in pellicola?
«Dal punto di vista tecnico oggi non c’è molta differenza. C’è dal punto di vista concettuale. Quando si usava la pellicola si rifletteva di più, ci si interrogava su quale utilizzare (nell’ultimo periodo c’era una bella varietà di scelta, a livello di sensibilità, incisione, ecc.), su che tipo di inquadrature adottare. Oggi questo non avviene più. È vero che c’è una maggior democratizzazione (tutti possono far riprese, basta anche solo un cellulare) ma si rischia l’appiattimento. Come se si usassero parole in libertà senza conoscere la sintassi. Senza essere capaci di costruire una frase corretta».
Guardando alla sua nutrita filmografia è curioso trovare film e autori tra loro molto diversi.
«Parto sempre dal film. Ho sempre parlato prima del film, solo in un secondo momento della fotografia. Quando mi propongono un lavoro, prima leggo la sceneggiatura e poi ne parlo col regista. Cerco di capire che film vuol fare, qual è la sua idea di fondo. Chiarito questo, si passa alla seconda fase in cui si affrontano le questioni tecniche. Ma mi è capitato più di un film in cui la fotografia è stata costruita in progressione, scena dopo scena».
Negli ultimi anni ha collaborato ripetutamente con Mario Martone, da “Noi credevamo” a “Qui rido io”.
«Mi ha invitato inizialmente per
Noi credevamo. Letto il copione, ero preoccupato per il dover affrontare una pagina così importante della storia d’Italia. Con Mario abbiamo parlato molto del tema e poco di fotografia. Ho affrontato il film in maniera pragmatica. Devo dire che poi sul set abbiamo avuto anche discussioni importanti, legate ad alcuni rischi. Penso a tutta la sequenza della prigione. Alla fine si è trattata di un’esperienza piuttosto positiva, tant’è che Mario mi ha richiamato per
Il giovane favoloso e per
Qui rido io».
Tra i suoi lavori più recenti c’è anche “Il buco” di Michelangelo Frammartino, con il quale tra l’altro sarà domani al centro di un incontro sul futuro del cinema d’autore.
«Anche in questo caso siamo partiti da un confronto – conclude Renato Berta – . Lui mi indicava i film che riteneva importanti e io facevo altrettanto. È stato un interrogarsi sulle immagini. La scelta fotografica si è imposta quasi da sola. Confesso che però io nella grotta non sono mai sceso».