Rinascita Basket Rimini ha compiuto cinque anni ed è già parecchio in alto. Come un bambino che dovrebbe andare all’asilo e invece si sta avvicinando alla maturità.
Paolo Carasso, quando nasce nella sua testa il progetto Rbr?
«Il momento esatto nel quale capisco che è l’ora di tornare a Rimini è il 15 dicembre 2015 quando con gli Angels battiamo i Crabs nel derby. A quel punto, a Santarcangelo di più non si poteva ottenere. Prima o poi dovevo fare qualcosa su Rimini. Ma ancora non c’era l’idea Rinascita».
Il passaggio successivo?
«Direi decisivo, un incontro con Maurizio Fabbri anima degli Angels e Roberto Fabbri, main sponsor con Dulca, le due persone che più di altri aiutavano e sostenevano Santarcangelo. Mi hanno dato la spinta decisiva quando ho presentato loro la mia idea, anzi l’hanno cavalcata, con la sola richiesta che Santarcangelo rimanesse comunque il punto di riferimento del settore giovanile nel panorama riminese. E io questo l’ho garantito».
Arriviamo alla curva?
«Da li ho cominciato a studiare idee e forma del progetto. E un’altra spinta forte è arrivata dai ragazzi della curva, che in modo forte ma educato hanno cominciato la protesta al palazzo. Ci hanno messo la loro faccia, non era il solito ‘dai Paolo, fai qualcosa per Rimini’, ma il cuore pulsante del tifo si era messo in prima linea per risolvere una situazione che si era fatta esasperata. Bisognava solo coinvolgere le persone giuste».
Si è ispirato a qualche progetto per mettere in pista Rbr?
«No, un simile progetto in giro, fatto in questo modo, in Italia non c’è. Ci sono i consorzi: un pool di imprenditori e di aziende che danno vita a una società. La particolarità è che qui ci sono le società sportive che acquistano le quote di Rinascita Basket Rimini. I giocatori di Rbr sono giocatori delle società sportive coinvolte nel progetto. Un po’ quello che avevo costruito a Santarcangelo con le associate Ibr, Abc, Verucchio, Malatesta, per un po’ di tempo anche Bellaria, ma senza acquisto delle quote. Con Rinascita non è la società madre che prende giocatori impoverendo le società piccole ma il contrario, abbiamo invertito il flusso».
Il suo merito più grande?
«Riuscire a coinvolgere tante persone convincendole solo su un’idea. Il primo anno non avevo niente ma dovevo farlo passare e capire come cosa concreta: li ho fatti sognare, ho parlato di riempire nuovamente il Flaminio, di rendere l’evento-partita unico in Italia. La mossa decisiva è stata l’ingresso di Paolo Maggioli: oltre a spendersi in prima persona, oltre a essere un aggregante straordinario, ha l’intelligenza di rispettare i ruoli, sa benissimo come un presidente si deve comportare in questa società sportiva. Paolo ci dà continuamente grande fiducia».
Riempire il Flaminio (fatto), allargare la base societaria (fatto, anche oltre le aspettative), puntare sul marketing (fatto e abbondante) e tanto altro. Si può dire che l’unico punto mancato del programma “elettorale” sia stata la riminesità in A2?
«Fino alla serie B la squadra aveva una presenza importante nei dieci, anche nei dodici. Vincendo si alza l’asticella, si alza perché la gente ci segue, la città è presente, l’entusiasmo è incredibile. Quindi ci sono meno giocatori della propria ‘cantera’. Ma nel basket di oggi se vuoi fare un settore giovanile improntato sull’identità del vecchio Basket Rimini, la parola d’ordine è pazienza. Per migliorare i giocatori nati e cresciuti nel vivaio serve tempo. Quel tempo che ci stiamo prendendo, intanto abbiamo posto delle basi importanti, tra i 2008 e 2009 abbiamo ragazzi di interesse assoluto e garantisco che nel futuro avremo sempre più giovani all’interno della prima squadra. Intanto abbiamo avuto Scarponi nella nazionale Under 20, Morandotti nell’Under 19, Ricci nella Under 15».
I due momenti top di questi cinque anni?
«Il primo, per distacco, è chiaramente la promozione in A2, per due motivi, personale e di progetto. È arrivata dieci mesi dopo la morte di mio babbo: a Gianmaria ho promesso che avrei fatto di tutto per portare il ‘suo’ Basket Rimini nel posto che merita. Diciamo che se dovessi scrivere un libro sulla mia vita nel basket, il finale è proprio quel giorno al Flaminio dove si rincorrono tanti aspetti e splendide emozioni. Al secondo posto metto i sold-out del Flaminio. Avete presente i tifosi che stanno in piedi in alto a fine tribuna? Nella mia immaginazione li ho sempre considerati come gli indiani nei film che aspettano sulla collina. Ecco, ai miei collaboratori ho ripetuto che quando al palazzo avessi visto anche gli indiani, allora saremmo stati al top».
Dalla C Gold alla serie A in quanto tempo?
«Come struttura societaria, tecnica e dirigenziale, Rbr potrebbe fare la serie A. Parlo anche per la credibilità che abbiamo quando andiamo a parlare con i giocatori, il fatto che ogni anno siamo cresciuti sul piano tecnico e nel reperire le risorse economiche. Se cinque anni fa per noi tutti era un sogno arrivare ad avere un budget di serie A, ora la differenza è molto livellata. Credo che stare al piano di sopra con la stessa sostenibilità, manchino un paio di anni».
Chiusura con l’attualità. Americani nuovi a parte, Grande, Tomassini, Simioni, più le conferme, rappresentano il trampolino di lancio per la serie A in due anni?
«Abbiamo affrontato il primo anno di A2 con l’obiettivo di salvarsi e capire se potevamo investire sui cinque giocatori che non avevano mai fatto l’A2. Chi era pronto è stato riconfermato, poi abbiamo battezzato tre ruoli chiave sul mercato italiano, cercando giocatori incisivi, importanti, affidabili. L’estate finora è stata positiva, al resto penseranno Ferrari, i ragazzi e il nostro favoloso pubblico».