Arrivo Sacchi, il visionario del calcio: "I miei maestri? Mio padre e il bibliotecario di Fusignano"

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Il calcio come metafora della vita, improntata ai valori, allo spirito di squadra, alla forza del collettivo. Il calcio come chiave di lettura della storia di un Paese e della sua cultura. Se i padri fondatori, gli inglesi, che inventarono il football, lo concepivano come uno sport di squadra e offensivo, la sua declinazione italica lo ha reso uno sport individuale e difensivo. Arrigo Sacchi il visionario, l’allenatore che ha rivoluzionato il calcio - il terzo di tutti i tempi, secondo France Football - si racconta giovedì sera, alle 21.30 al Clan 292 di Milano Marittima, in una serata evento, che avrà come moderatore lo scrittore Leonardo Patrignani. «Una storia che penso possa interessare tutti - esordisce al telefono - perché se ce l’ho fatta io...». Ma Sacchi, lo sa che nemo propheta in patria? «Sì, specie in un Paese fatto di individualismo, furberie, tatticismi. Ma io, nel mio piccolo, ho cercato di rispettare dei valori». Cita Peter Drucker, Sun Tzu, vuole dare un sistema alle sue idee, un metodo al suo modo di concepire e divulgare lo sport più popolare del pianeta. Una filosofia del calcio, che diventa anche una filosofia di vita. Un tributo quasi metafisico alla “Dea Eupalla”, che presiede al bel gioco. La sua aneddotica e alcune sue massime sono celebri. Altobelli che in un derby Milan Inter grida all’arbitro di contare i giocatori perché sembrano in quindici. «Ma erano loro che col loro posizionamento giocavano in sei o sette». E poi ancora: «Una vittoria senza merito per me non era una vittoria». «Avere il dominio del gioco poteva aumentare la tua autostima». «La sicurezza della collaborazione degli altri compagni di squadra non ti faceva mai sentire solo». Già, la solitudine dei numeri uno. Sacchi chi vede come suo erede, chi ha preso il testimone? «Oggi ci sono degli strateghi, uno, De Zerbi, è dovuto andare all’estero, ma ci sono anche Sarri, Gasperini, Thiago Motta. Anche tra quelle meno blasonate ci sono molte squadre che credono nelle idee. Noi prima credevamo solo nella tattica, ma non solo nel calcio, anche nella vita di tutti i giorni». Lei è considerato un maestro, i suoi quali sono stati? «Mio padre, che fece la guerra e che giocò anche nella Spal. Veniva a vedermi giocare ma non mi ha mai detto una parola. Un altro, era il bibliotecario di Fusignano, Alfredo Belletti. La persona più intelligente e culturalmente preparata che io abbia mai conosciuto». Un pensiero commosso va poi al presidente Berlusconi, recentemente scomparso. «Ho avuto la fortuna di allenare un grande club, con la sua visione, la sua competenza e il suo stile. Quello stile che genera orgoglio di appartenenza, che ti fa capire quello che sei e quello che sarai». Venendo al Napoli campione d’Italia, “squadra che vince non si tocca” non pare essere nei suoi dettami. «Non vedo il problema. Se una cosa funziona, correggila. Oggi il rinnovamento è un elemento fondamentale. Devi sempre stare al passo e non si tratta solo di un’evoluzione, bensì di una rivoluzione. Se non ti adegui, in un anno hai già perso la conoscenza». Sacchi è fatto così. Sarà perché, parafrasando Ryan Giggs - attaccante del Manchester United e poi allenatore del Galles, che gli chiedeva come avesse fatto a far nascere in Italia una squadra come il suo Milan, che per World Soccer è la più grande squadra di club di tutti i tempi - se il campo fosse lungo due chilometri lo troveremmo a giocare sempre negli ultimi venti metri. O forse perché «la tattica senza strategia è solo il rumore che precede la sconfitta».

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