Aroldo, come si può fare un'opera in modo nuovo

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Dopo il successo del debutto agostano a Rimini, il pubblico dei teatri di Ravenna, Piacenza e Modena e la critica l’hanno unanimemente acclamato, con una rassegna stampa di provenienza internazionale e recensioni entusiastiche; sul portale Opera Streaming l’hanno visto almeno in 20mila e a breve andrà in onda sul canale culturale della tv di stato, Rai5.

Insomma, il bilancio dell’Aroldo non potrebbe essere più positivo. Soprattutto se si pensa che l’impulso alla nuova produzione è maturato in seno a un teatro che rinasceva da un silenzio durato ben 75 anni, il Galli di Rimini, ovvero lo stesso teatro a cui Verdi aveva destinato questa opera nel 1857. Una nuova produzione che, possiamo giurarci, d’ora in poi rimarrà come punto di riferimento sia per gli interpreti sia per il mondo accademico che vorranno affrontare questo titolo. E il merito è veramente tutto riminese, ché i principali artefici sono nati o cresciuti in questa città, forze “locali” ma di valore internazionale: da Emilio Sala e Edoardo Sanchi, che insieme firmavano drammaturgia e regia, al direttore d’orchestra Manlio Benzi.

È proprio il maestro Benzi a raccontarci l’emozione e la soddisfazione legate a questo Aroldo.

«Intanto, l’emozione di dirigere opera nel teatro che da sempre ho visto in disuso, dove da giovanissimo, come tanti ragazzi di questa città, giocavo a pallacanestro – vi era stata ricavata una palestra! Eppoi quella di veder realizzato un sogno che da tanti anni coltivavo, insieme proprio ad amici come Edoardo ed Emilio. È con loro che vent’anni fa per la prima volta abbiamo cominciato a pensare che Aroldo sarebbe stata l’opera giusta, quella che avrebbe riallacciato i fili della città con la sua storia culturale più gloriosa – con le settimane che Verdi trascorse qui per lavorare al suo debutto – segnando così l’inizio di un futuro altrettanto importante».

Il sogno dunque si è avverato. Non solo: in “Aroldo” è stata integrata la vicenda del teatro riminese caduto sotto i bombardamenti del ’43, trasformata essa stessa in drammaturgia. Un intreccio inedito e anche rischioso.

«Il fatto è che tra buca e regia si condivideva la stessa poetica, la stessa idea di opera lirica, convinti tutti che, al di là di obsolete gerarchie, ogni componente dello spettacolo debba intrecciarsi in modo indissolubile con le altre, musica, recitazione, canto, scene, luci, azione, in uno scambio che costituisce l’essenza del teatro. Solo così abbiamo potuto fare esplodere il forte messaggio di Verdi, che è appunto quello teatrale. Credo che il successo che ci è stato tributato nei diversi teatri, penso al pubblico esigentissimo di Piacenza per esempio, o a quello più diffidente e tradizionalista che fa capo a una trasmissione radiofonica come La Barcaccia di RadioTre (che ci ha riservato uno spazio lusinghiero), sia scaturito proprio da questo nostro approccio».

Un approccio in cui, aggiungiamo, la passione si salda alla competenza. Anche a quella degli interpreti: da una parte i cantanti, dall’altra l’Orchestra Cherubini che lei ha diretto per la prima volta.

«Abbiamo lavorato con due diversi cast vocali, a Rimini e in tournée, che seppure di diversa caratura hanno saputo con intelligenza inserirsi nel lavoro comune, quindi nel disegno drammaturgico complessivo, ognuno al meglio delle proprie caratteristiche. Della Cherubini poi posso solo dire che sono ragazzi fantastici! Si sente l’impronta del maestro Muti: oltre a essere individualmente ottimi musicisti, lavorano con disciplina e dedizione, pronti sempre a cercare il meglio e a crescere. Mi piacerebbe poter collaborare ancora con loro, credo potrebbero essere una risorsa importante e preziosa anche per il nostro teatro».

Ritiene che, dopo questa prima importante produzione, se ne possano ipotizzare altre per il Galli?

«Non saprei, ma certo penso che questo Aroldo abbia dimostrato che qui si può fare opera in un modo nuovo, mettendo d’accordo la tradizione con il cuore più giovane di questa arte, che non è affatto roba da museo come talvolta si è portati a pensare. Anzi, penso che il fatto che in questa città l’opera sia mancata per così tanti anni, anziché essere un problema potrebbe invece lasciarci la libertà di coglierne fino in fondo tutta la modernità. Insomma, ciò che spero è che questo successo sia soltanto il primo passo di un percorso originale, in cui Rimini possa ritagliarsi un ruolo importante nel panorama nazionale e diventare a pieno titolo il laboratorio di un nuovo modo di fare opera».

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