Alberto Fontana: "Il mio calcio da innamorato della spiaggia"

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Alberto Fontana, 12 anni da quando ha smesso con il calcio. Come è cambiato?

«Io già ho vissuto un discreto cambiamento perché ho cominciato a giocare con il passaggio indietro al portiere ed un unico pallone che, quando usciva, non sempre rientrava subito in campo e quando ho smesso nel 2009 giocare con i piedi era la normalità ed il tempo effettivo era notevolmente aumentato. Quello che mi è mancato è stato il Var, che credo sia stata una grandissima invenzione perché un uomo solo non può più guardare adesso come adesso tutte le cose su un campo da calcio. Come tutte le cose può essere migliorata, ma l’80-90% delle discussioni del lunedì le abbiamo cavate e non è poco».

Meno chiacchiere a vanvera ed anche meno dubbi sugli arbitri.

«Sì, mi dispiace di non aver vissuto un momento con questa tecnologia perché quando tornavi a lavorare il martedì dopo che magari avevi subito un errore arbitrale beh, la settimana era più pesante soprattutto se era accaduto in una partita importante. Tre uomini in campo non riuscivano più a stare dietro a certe velocità: il Var ha aiutato il calcio. La storiella “quando sei a fine anno tutto si compensa” era una favola: quando sei piccolo oppure quando ti giochi una partita decisiva non è detto che a fine anno si compensi. È stata una rivoluzione ottima, così come quella che vissi nel passaggio dai 2 ai 3 punti per la vittoria: anche quella ha cambiato tanto, perché c’erano certi secondi tempi che erano all’insegna del “meglio due feriti che un morto».


Avrebbe fatto la stessa carriera nel calcio attuale?


«Io sono stato abbastanza, e lo dico fra virgolette, sfortunato perché quando giocavo io c’erano davvero 8-10 fenomeni per cui era difficile pensare di stare davanti a Rossi-Marchegiani-Pagliuca-Toldo-Buffon: io ho giocato di più, fino ai 40 anni, perché successivamente a questi ci sono stati ottimi portieri ma non c’è più stato quel livello di quegli anni. Il mio 185 centimetri adesso sarebbe al pelo perché la fisicità è cambiata: ho il massimo rispetto per chi gioca adesso in serie A perché è diventato tutto più difficile visto anche che la palla va più veloce. Attenzione, però…».

Prego…


«Questo non vuol dire che mi piacciano i portieri che parano poco e giocano soprattutto con i piedi. Io considero scontato che tu portiere, dopo 30 anni che c’è la regola, sappia giocare con i piedi ma mi piace il portiere che sbroglia la situazione su un calcio d’angolo uscendo, quello che quando esce rasoterra mette la faccia dove la deve mettere senza paura: giocare con i piedi per me è una cosa ovvia, punto. Come in tutti gli sport, la fisicità e la preparazione atletica sono diventati fattori importanti: una volta gli allenamenti erano ben diversi, quando ho cominciato io mettevano 40 palloni al limite dell’area e calciavano fin quando non ti alzavi più. Era il modo per rovinare la gente».


Perché?


«Perché un portiere in una partita fa 7-8 parate. Io dico sempre che il grande portiere è quello che fa finire l’azione: se deve bloccare la palla la blocca, se deve deviarla in angolo la mette fuori e se serve uscita alta con il rischio di sbagliarla la devi fare».

C’è un giovane, oltre al fenomeno Donnarumma?

«Donnarumma non lo considero più giovane, perché ha già fatto 200 partite nel Milan. Silvestri è una bellissima realtà, così come Gollini e Sportiello sono due ottimi portieri».


L’Inter se l’aspettava lì dopo l’uscita dalla Champions?


«Sta facendo veramente bene. Mi dispiace che la Juve sia uscita in Champions, poi è ovvio che l’Inter ha messo un bel punto di partenza con l’attuale vantaggio, fermo restando che il campionato italiano è il più difficile a livello mentale anche se non più bello: se non vai a giocare sul campo dell’ultima in classifica e non sei lì con la testa, i punti non li fai. Cosa che all’estero invece non succede: in Italia il concetto di giocarsela a viso aperto non succede, all’estero vedi l’ultima che gioca con la linea a metà campo e prende 5 gol. Da noi non capita, per assurdo non avere competizione europea è un danno ma può aiutare».


Però l’Inter è criticata sul piano del gioco.


«Faccio una premessa: molta gente per me si è rovinata guardando il fantastico Barcellona di Xavi ed Iniesta e pensa che il calcio sia solo quello lì. Chapeau, ma poi vedi la Francia che vince il mondiale e fu quella che fece meno possesso palla ed il Leicester di Ranieri, che fece qualcosa di fantascientifico e non è stato sottolineato abbastanza il livello di quell’impresa storica, rubava la palla e cercava subito Vardy negli spazi. Il calcio non è uno: se hai un fenomeno come Lukaku che fa girare tutta la squadra ed è decisivo anche quando non segna, penso sia un segno di intelligenza usare le armi che hai. Per questo sono molto prevenuto sugli allenatori che predicano troppa bella roba, puoi fare il bel calcio a seconda del materiale che hai: rispetto al massimo quello che fa Conte, ma anche quanto fatto da Allegri o Gattuso ed in generale di quegli allenatori che hanno giocato a calcio».


Niente Sarri, quindi.


«Io sono prevenuto, nessuno me ne voglia. Per me la differenza la fa il fatto che chi è stato calciatore sa bene che lo scopo è giocare bene e vincere, però se non è giornata ci sono lo stesso 3 punti per cui non è che lasci tutto al caso, li porti a casa anche con una scivolata o un colpo di testa in più. Come dicono Conte o Gattuso, sono l’intensità e l’atteggiamento che fanno il modulo vincente. I più bravi sono quelli che, con la rosa a disposizione, capiscono quale è il modulo giusto per i tuoi giocatori: il calcio lo si vuole rendere più difficile di quello che è. Capello ha vinto ovunque, prima delle finali diceva “preferite giocare bene e perdere la finale o vincerla giocando male?”. La gente magari questa cosa non la capisce, ma se hai giocato a calcio sai che io voglio vincere, questo è quello che interessa».


Ha visto su Sky il documentario su Ronaldo?


«Sì, l’ho visto. Un fenomeno: negli sport ogni tanto arriva qualcuno che sposta asticella in avanti e da quel giorno in cui arriva cambiano tutti i metri di paragone. Ronnie faceva al doppio della velocità tutto quello che prima si faceva più lentamente: lì ti rendi conto che la Natura ha deciso di fare qualcuno di diverso. Sono convinto che ogni tanto c’è questa eccezione, ho avuto la fortuna di conoscerlo e delle volte non dico ti venisse da ridere ma delle volte lo guardavi chiedendoti: ma come fa?».


Si può paragonare al Ronaldo attuale?


«Come talento, secondo me il Fenomeno ne aveva di più. La professionalità e la dedizione al 100% del Ronaldo attuale deve essere un esempio, un modello per tutti i bambini che vogliono giocare a calcio perché una persona che alla sua età ha ancora fame, dedizione e cura maniacale del suo corpo siamo davanti ad un fenomeno sotto un altro punto di vista».

I tre giocatori a cui è rimasto più legato?

«Toldo. Francesco è stato un amico, quando ti alleni con uno più bravo di te puoi solo imparare, c’era complicità ed è una bella persona perché era molto semplice, ci sentiamo ancora. Onofrio “Nuccio” Barone: quando vai via di casa dal tuo orticello e dai tuoi amici per la prima volta come capitò a me quando andai a Bari, non fu facile e questo ragazzo gentilissimo e disponibile è stato per me un punto di riferimento, poi a Palermo è stata la quotidianità di vivere assieme a lui, a sua moglie, a sua figlia che ho visto nascere. Un rapporto bellissimo. Francesco “Checco” Baldini: abbiamo giocato poco assieme ma c’è stata grande simpatia: ci siamo “presi” subito a pelle. E’ stato bellissimo, eravamo un toscanaccio ed un romagnolo che si facevano le battute. Non ho messo Bianchi e Minotti perché siamo cresciuti assieme: a 10 anni giocavamo assieme quindi a loro non mi viene da pensare come compagni di squadra ma sono amici di infanzia».


Allenatori da ricordare?


«Farei fatica a dirne uno, perché con gli allenatori ho avuto un rapporto particolare. Mi spiego: io non ero il tipico “fisicone” che emanava questa fiducia per cui all’inizio tutti con me erano titubanti. La più grande gratificazione è stata che 7-8 di quelli che ho avuto poi volevano portarmi tutti con loro: quando cambiavano mi chiamavano sempre e tanti mi hanno portato con loro e quindi io sono grato a queste persone perché il gesto di un allenatore che ti chiama come prima telefonata quando se ne va mi ha gratificato moltissimo e probabilmente mi ha fatto smettere anche più tardi. A me piace allenatore che ti manda “nel casino” quando lo deve fare, che se le prende con il più importante dello spogliatoio, che non sono permalosi perché come si litiga con moglie e figli si può litigare anche con l’allenatore, però finisce lì. Mi piace allenatore leader, che se ti deve dire una cosa te la dice, quelli che ti danno la sensazione che hanno in mano la situazione ed odio quelli che si fanno dettare la formazione. Chi vuole capire capisca…».


Quando giocava, guardava le pagelle dei giornali?


«Sì. Io leggevo le pagelle come tutti i calciatori che non lo vogliono ammettere ma lo fanno. È normale che sul giudizio che ti viene dato sei curioso e lo vai a leggere, quando ero giovane il voto un po’ mi destabilizzava, crescendo devi cercare di essere più coerente con te stesso perché lo sai se potevi fare meglio e se su quel gol ce l’hai messa tutta per prenderlo oppure no. Però la curiosità di vedere il voto è logica, ti influenza meno crescendo».


Il più antipatico contro cui ha giocato?


«Nel mondo del calcio è come in una classe o in un gruppo, ci sono simpatie ed antipatie. Io ho sempre avuto la massima ammirazione per il giocatore Nedved però non mi era simpatico: parliamo di un giocatore fenomenale ma il fatto di cercare sempre qualche finto fallo di troppo non mi andava davvero giù».


Lei ha smesso a 40 anni, Ibrahimovic è tornato in Italia a 40 anni. Si aspettava un impatto così?


«Quando vinci 8 scudetti su 9 campionati, giocati in Italia il tuo biglietto da visita non è male. Come l’Inter ha Lukaku là davanti che per marcarlo uno solo non basta, così avere Ibra con quella personalità e quella fisicità fa la differenza, senza dimenticare la mentalità che ha e che ha trasmesso alla squadra. Ha cambiato il Milan, i grandissimi giocatori sono quelli che determinano anche solo stando in campo: non è sempre importante solo fare gol, ma anche dare un segnale, magari dando una capocciata su un calcio d’angolo in difesa. Inutile nasconderlo, avere la punta fisica nel calcio di adesso fa la differenza perché ti dà la possibilità di giocare in più modi».


Torniamo vicini a noi: al Cesena cosa consiglierebbe, aprirsi a investitori esterni o no?

«Premesso, un grande grazie a chi ha preso una situazione disperata ed ha fatto ripartire una città che ha una storia di calcio bellissima, una piccola realtà che ha una tradizione lunghissima. È chiaro che nel calcio di oggi i mezzi economici sono più importanti del passato per poter programmare e poter ambire a tornare a certi livelli: credo che la strada del Cesena debba essere quella, come accaduto storicamente in passato, di partire dal settore giovanile portando giovani in prima squadra. Un settore giovanile che era il serbatoio della prima squadra, sposando un piccolo modello Atalanta vendendo poi i giovani ad altre società perché è giusto venderli, perché puoi far nascere collaborazioni con altre società. Il fallimento ha creato un taglio, a livello giovanile c’è una persona serissima e capace come Jozic: mi auguro che possa entrare disponibilità economica da fuori perché per arrivare a certi livelli è essenziale, per quanto tu possa essere bravo. La C è tremenda, per vincerla serve che arrivi qualcuno che possa metterci mezzi importanti».

Un po’ di idee e pochi soldi: denominatore comune del calcio romagnolo attuale?


«Il calcio ormai a livello mondiale è fatto da proprietà esterne, noi siamo abituati a società con proprietari della stessa città. Da noi in Romagna ci sono città non grandissime, il bacino di utenza magari è più grande: il Cesena che fa 12mila persone in Serie D è impensabile per uno che non sia romagnolo, ci si dovrà abituare alle proprietà straniere che però non sono sempre affidabili come quelle italiane. Città non grandissime si spera che qualcuno decida magari di sfruttare la Riviera come pubblicità, la Riviera potrebbe essere un punto attrattivo su un certo tipo di mercato. Mi auguro che fra un paio di anni come settore giovanile del Cesena ci possano essere i frutti di anni di lavoro, che qualche ragazzo possa poi essere venduto per far entrare soldi».

Oppure bisogna sperare in una covata come la vostra con Fontana-Bianchi-Minotti che partono da Pinarella. Potrebbe succedere ancora?


«Non può succedere. È stata una casualità, mi ricordo che nei tornei estivi ci univamo al Cervia ed oltre a Minotti e Bianchi c’erano Teodorani, Sala, Paolo Rossi, il fratello di Minotti che se non si fosse fatto male sarebbe andato subito in prima squadra, Montanari, Zanuccoli: è stata una coincidenza incredibile, alla volte pensi che le stelle ti hanno aiutato. Era bello andare in giro con una squadrina così e vincere con tanti squadroni: a livello psicologico un bambino si appassiona ancora di più, siamo andati a Cesena in 4 partendo da Pinarella ed andare in un settore giovanile così importante in quegli anni fu davvero qualcosa di particolare».


Allarghiamo lo sguardo: quando si potrà tornare fuori, cosa facciamo?


«E me lo chiede anche? Io sono il figlio di un bagnino, mio babbo fece un bagno negli anni ’60 ed io vivevo 5 mesi all’anno al mare. I miei si facevano il mazzo, io da figlio del bagnino non me la passavo male come lavoro. Non ho mai pensato di non tornare a vivere nel mio paesino, forse mi ha anche aiutato a smettere il fatto di tornare a casa: andare via in ritiro a luglio, quando ero ragazzino, fino a Bologna in autostrada era dura digerirla perché qua cominciava il paese dei balocchi. Poi pensavo che era il mio lavoro e me ne facevo una ragione il mio rapporto con la sabbia e con il mare è particolarissimo, quando con mia moglie e con i miei figli abbiamo deciso di tornare a vivere al mare è stato proprio per quello perché questo rapporto con il mare vale non solo in estate ma anche a marzo ed ottobre. La spiaggia ed il mare, magari con una partita di racchettone ed il tuo compagno che magari ti sgrida…».


Già, proprio come facevano gli allenatori, da suo compagno di racchettoni tocca sgridarla: ogni tanto è pigro, lo ammetta…


«Mi piace, sono onesto con me stesso e so quando pedalo oppure no. Il fatto che quando non pedali ci sia qualcuno che me lo fa capire “no, così non va mica bene”: ho avuto rapporti che quando me le devono dire me lo dicevano, sul momento magari non ti piace però quando sei da solo e rifletti ti dici “non è che si è svegliato male, aveva ragione lui” ed è per quello che mi piacciono Conte, Allegri, Gattuso e Pioli. Quel rapporto lì per me è produttivo, quando gioco a racchettoni lo capisco anche io quando ho voglia di fare un po’ di fatica oppure no».


Capitolo Covid: vaccino sì o vaccino no?

«Sì, certo. Ammiro tanto le persone che hanno studiato, mi piace seguire le persone che ne sanno più di me: quando si parla di cose serie, io devo stare zitto ed ascoltare. Sono un anti-tuttologo per eccellenza, quelle persone che ogni mattina hanno una laurea o una specializzazione diversa a seconda dell’articolo di Google che hanno letto mi sono molto antipatiche. Non sopporto anche quando in spiaggia ognuno diventa architetto, ingegnere, virologo: ad ognuno il suo lavoro se devi studiare 10-15 anni una cosa un motivo ci sarà e non basta certo un articolo letto su internet».


Politica: Conte o Draghi?


«Non avevo antipatia verso Conte. Mi piacciono le persone pacate, quelle che non hanno l’atteggiamento dello sbruffone del bar: mi piaceva il suo approccio, però sono amante di matematica e delle persone che hanno un curriculum per cui credo che Draghi sia il top delle persone che potevamo presentare. Le credenziali sono importanti, se uno ha fatto tante cose giuste non è che non sbaglierà mai però se dobbiamo fare guidare la macchina la facciamo guidare al più bravo. Gli sbruffoni del bar, come i tuttologi, mi stanno sulle palle…»

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