Intense vibrazioni magnetiche con il pop rock da Liverpool

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RIMINI. La voce un po’ rauca, gli occhiali scuri, il giubbotto di pelle allacciato nonostante il caldo tropicale di una sera riminese di luglio: a Iac McCulloch piace citare Lou Reed e Jim Morrison (ma anche David Bowie) mentre si attacca a un microfono che non lascia quasi mai, se non per girarsi a bere e per ringraziare il folto pubblico riminese che ha accolto calorosamente Echo and the Bunnymen alla Corte degli Agostiani. «Grazie mille» ripete più volte cercando conferma dell’incerta pronuncia italiana. Del resto, lo disse lui stesso a un giornalista nel 1984: «Forse più di ogni altra cosa, i Velvet Underground sono importanti per noi».

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Lunedì, a Percuotere la mente, è arrivata da Liverpool la rock band di culto, portandosi dietro tutto il fascino e la suggestione dark wave degli anni Ottanta, quelli che li consacrarono con l’album capolavoro Ocean rain (1984), struggente, romantico e orchestrale. Sulla copertina blu la celebre foto scattata alle Carnglaze Caverns di Liskeard, in Cornovaglia. Così come blu è il finale di un concerto reso più rock dalle chitarre di Ete Reilly e dal riverbero di Will Sergeant – l’altro storico fondatore –, finale delicato ma carico di pathos come una tempesta che non scoppia, con le note della celebre hit che arrivano quasi a spegnersi in un sussurro corale e profondamente emotivo. Completavano la formazione Jez Wing alle tastiere, Simon Finley alle percussioni e Stephen Brannan al basso.
Un ritorno in riviera per gli Echo, che erano stati al Velvet nel marzo del 2002, sull’onda, allora, del buon risconto ottenuto da Flowers (2001) – album giunto dopo vari accadimenti tra cui lo scioglimento della band, la morte del batterista Pete De Freitas, le abortite carriere soliste e la ricomposizione del gruppo con una nuova formazione nel 1997 – e in contemporanea con il disco dal vivo Live at Lipa. Il loro ultimo lavoro in studio, invece, Meteorites, è del 2014, mentre nel 2018 è uscito per la Bmg The stars, the oceans & the moon: l’album – che funge da spina dorsale del tour – è una raccolta di tredici brani per l’occasione riarrangiati, ma ci sono anche due inediti, il singolo The somnambulist – proposto anche a Rimini – e How far?, pezzi che dimostrano, a più di 40 anni dalla fondazione della band, una ispirazione forse non più cristallina ma di certo ancora fresca.
Anche se i momenti migliori in scaletta sono rappresentati da grandi classici accolti con favore dal pubblico in larga parte “over 40”, come Bring on the dancing horses, The cutter, Lips like sugar, Seven seas, Zimbo, o la più recente e melodica Rust che conserva il marchio di fabbrica.
E se pure i Bunnymen non hanno mai raggiunto la fama di altri gruppi coevi, sono tante le band che negli anni si sono ispirate al loro stile, dagli Oasis ai Coldplay, dai Verve ai Radiohead. Persino il cinema ha spesso attinto con copiosità ai loro vibranti suoni post punk (vedi Donnie Darko).
McCulloch, 59 anni, è carismatico, intenso, magnetico: quando la voce perde in altezza, la sa modulare con perizia, trasformando le parole in sussurri e i respiri in note. L’ibrido peculiare di psichedelia e pop rock regge bene agli anni, il cantante è ancora una rock star come ce ne sono poche in circolazione. Allegro, ammira l’antica corte conventuale che li accoglie, fa i complimenti a Rimini, chiede quanti fra il pubblico arrivino da fuori, dice: «Si sta bene qui, dovremmo tornare più spesso da queste parti».
Tra le perle della serata, Noyhings lasts forever che diventa Walk on the wild side e la rockettara ripescata Do It clean che si trasforma nella Sex machine di James Brown. Peccato siano mancate la splendida versione di People are strange dei Doors e la struggente Thorn of crowns.
Un’ora e mezza compresi i bis, molti applausi.

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