Affronte. La società del petrolio

In questi giorni di emergenza stiamo vivendo un evento che non ha eguali nell’arco temporale delle nostre vite. Chiusi in casa, leggiamo e riflettiamo continuamente sull’evolversi della situazione ma anche, spesso, su cosa succederà dopo. Fra le varie analisi degli scenari del futuro immediato e delle possibili conseguenze, una delle più preoccupanti che ho letto è quella dell’analista della CNN statunitense e esperto di geopolitica, Fareed Zakaria. Parla di quattro crisi: quella sanitaria e quella economica, già pienamente in corso, e poi di quelle possibili, il crollo delle economie emergenti e infine la crisi dei paesi petroliferi.

Su quest’ultima, Zakaria dice: «Quello che mi dicono in privato i manager dell’industria è che […] non hanno mai visto nulla di simile. La domanda di petrolio per il trasporto non è calata, è scomparsa o quasi: gli aerei non volano, le auto non vengono consegnate. Sa cosa vuol dire per Paesi come Libia, Nigeria, Iran, Iraq o Venezuela, dove il 90% degli introiti pubblici viene dal petrolio? Quei governi fanno un profitto solo a partire da 60 dollari al barile, si troveranno di fronte al dilemma se continuare a produrre in passivo per non perdere quote di mercato o chiudere tutto.»
Al di là degli scenari geopolitici e delle possibili soluzioni alle crisi che l’analista paventa, quello che è da sottolineare è che forse per la prima volta negli ultimi 150 anni si parla di un possibile stop al petrolio. Senza che il mondo, sia chiaro, sia assolutamente pronto per questo. È lo scenario che prefigura la famosa teoria del picco di Hubbert e cioè che col tempo, qualunque risorsa naturale estratta da giacimenti del pianeta, andrà incontro a quattro fasi, che terminano con la fine delle estrazioni. Questa fine arriva molto prima che la risorsa stessa sia esaurita, perché a un certo punto, estrarre un barile di petrolio costerà di più di quanto si possa guadagnare vendendolo. A quel punto l’estrazione tenderà a cessare. I “picchisti” da anni ci mettono in guardia su questo (e su molti altri picchi verso su cui stiamo spingendo il pianeta). Nel caso del petrolio chiedersi cosa succederà dopo è estremamente urgente (perché il picco non è lontanissimo, coronavirus o meno) ed estremamente importante, perché quali alternative abbiamo? Che ci pensiamo o meno, che ci piaccia o meno, tutta la società come la conosciamo oggi, si basa sul petrolio. Quasi tutti gli oggetti che usiamo, telefoni, computer, automobili, aerei, strade, mobili, eccetera, o hanno dentro delle parti ricavate dal petrolio, o hanno sfruttato l’energia ricavata dal petrolio per essere estratti, lavorati, assemblati e trasportati fino a noi. Lo stesso dicasi per il cibo che mangiamo: gli allevamenti di animali consumano gigantesche montagne di energia e in tutta la filiera la presenza del petrolio è immancabile. Lo stesso per le produzioni agricole, meno energivore, ma comunque basate in molti passaggi sulla disponibilità di petrolio.
È così. Il nostro sviluppo è legato a doppio filo con l’estrazione del petrolio. Se ancora non ci credete, pensate a questo: l’umanità ci ha messo 10.000 anni a crescere fino a 2 miliardi di individui (alla fine dell’800). Poi ha iniziato a sfruttare il petrolio in maniera industriale e, in circa un secolo, siamo arrivati a 7 miliardi. È lui che dobbiamo ringraziare, l’oro nero. Che però ci ha consegnato un mondo che si surriscalda per colpa dei suoi scarti (la CO2) e una società che dipende da lui. E che ora sbatte fortissimo il muso contro il modello che abbiamo costruito, vedi le nuove patologie dovute alla nostra invasione e soppressione degli ecosistemi naturali e vedi la paura che una grave crisi economica blocchi il carburante del nostro (sconsiderato) sviluppo.
Alternative al petrolio, per il momento, non ne abbiamo. Le rinnovabili coprono solo un 10% a livello globale, e non ci abbiamo creduto e investito abbastanza, siamo indietrissimo. Il nucleare ha molti più problemi che vantaggi, il metano produce gas serra e comunque serve solo a usi limitati come il riscaldamento, il carbone è disastrosamente inquinante.
Insomma, ammettiamolo: se non ora quando? Se non ripensiamo ora al nostro futuro e a una società che possa essere sostenibile (nell’accezione più larga possibile del termine) quando lo faremo? Quando il crollo, di cui vediamo sempre più segni tangibili, sarà già avvenuto?

*Naturalista e Divulgatore scientifico - ex europarlamentare

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