A Santacangelo il film sui crac bancari: parla il regista Rossetto

Guardare in faccia quelli che hanno gli schéi, i soldi, e che con il loro potere arrivano a «fottersene altamente del prossimo e calpestare senza batter ciglio la comunità alla quale si appartiene».

Alessandro Rossetto (Piccola patria, Effetto domino) non usa le mezze misure. Sarà per questo che ha scelto audacemente il bianco e nero, e uno stile espressionista consapevolmente ricercato, per il suo The Italian banker, in sala dal 7 novembre dopo l’anteprima al Bif&st di Bari (in concorso) e da lunedì 25 a mercoledì 27 ottobre al Supercinema di Santarcangelo (ore 21.30, in collaborazione con Fice Emili- Romagna, martedì sarà in sala anche l’autore).

Le banche popolari, i crac finanziari, la rabbia dei piccoli azionisti, le inchieste. Si aggancia alla cronaca finanziaria degli ultimi anni The Italian banker, e nello specifico al dissesti delle banche popolari venete, ma sin dalla scelta stilistica sembra andare oltre al richiamo puramente realista.

Prima spettacolo teatrale realizzato per il Teatro Stabile del Veneto nel 2019, Una banca popolare di Romolo Bugaro (prodotto dallo stesso Rossetto), poi film – con la sceneggiatura di Bugaro e Rossetto, il montaggio di Jacopo Quadri, come assistente alla regia la forlivese Angela GoriniThe Italian banker si è già fatto notare con giudizi positivi dalla critica cinematografica e ora affronta la sfida della sala. Mai facile in Italia per i film fuori dai circuiti della grande distribuzione.

Rossetto, “The Italian banker” non è la semplice trasposizione dello spettacolo teatrale al cinema, ma un lavoro con una sua autonomia. In che senso?

«Spettacolo e film raccontano storie in qualche modo anche diverse. Inizio e finale e alcuni elementi del racconto in sé sono diversi, a testimoniare il processo creativo, che è stato molto libero. Ovviamente ci sono dei fatti reali che hanno ispirato sia il testo di Bugaro che la sceneggiatura. Ovvero i crac bancari degli ultimi anni che hanno impoverito moltissimi piccoli risparmiatori e che sono responsabilità di vertici bancari inadeguati e rapaci. Il film tenta un’operazione sofisticata, dà la parola ai cattivi e si interroga sul valore della comunità e sull’importanza che la comunità vigili».

Tutto si svolge in una lunga notte, fino all’alba, nei saloni di una grande villa palladiana, dove è in corso una festa esclusiva: uomini in giacca scura, signore in abito lungo. Unità di tempo e luogo e una scelta espressiva espressionista. Considerando i film precedenti, “Piccola patria” ed “Effetto domino”, si nota una evoluzione della sua poetica: da uno stile più realista ad uno espressionista.

«Questo è un film con una importante scelta estetica che non è solo il bianco e nero ma l’eleganza della ripresa, lo stile cinematografico anche esasperato. È certamente frutto di una scelta, ma bisogna anche dire che è la storia che viene raccontata che si presta a questo stile».

È stato paragonato al cinema di Buñuel. Ci si ritrova?

«Buñuel, Germi, Fellini, ne sono state dette molte. Io mi nutro di cinema da decenni, lo faccio, lo insegno anche, è inevitabile che emergano riferimenti. Un riferimento certo per quel che mi riguarda è al film L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais (1961) che fa un lavoro molto interessante sul tempo. In The Italian banker racconto una notte molto strana dove anche il tempo e lo spazio sono trattati in una maniera non usuale, il tempo è come se si diluisse, lo spazio diventa un po’ sognante. È un lavoro espressionista e anche la recitazione diventa espressionista. Quando faccio un film mi piace sperimentare e siamo andati anche in questo territorio ardito riguardo al lavoro degli attori».

Perché il titolo in inglese?

«Questo è un film che, come mi ha detto qualcuno, si poteva girare anche a Boston. Volevamo usare la lingua bancaria. Poteva essere The Russian banker, The Australian, The French banker, ma quello che emergeva in questa storietta così paternalistica erano purtroppo le caratteristiche dell’Italian banker: grande menzogna, autodifesa e un grande paternalismo quasi la banca fosse una chiesa di cui fidarsi per fede…».

A differenza degli altri suoi film non si parla affatto dialetto e il riferimento territoriale non è così esplicito. Come dire che anche la vicenda raccontata diventa paradigmatica, un copione che si è ripetuto anche altrove. È così?

«Nei miei altri film si parlava molto il dialetto, in questo non c’è. Il riferimento territoriale è in effetti lontanissimo e lo si può intuire da qualche cognome, qualche accento. Il crac della Banca Popolare di Vicenza è stato per il territorio triveneto uno tsunami ed è chiaro che la storia parte da lì. Però noi abbiamo presentato il film a Bari dove una banca popolare ha fatto la stessa fine e assicuro che tutti hanno capito…».

Come è stato girare a Villa Pisani, una villa palladiana in provincia di Vicenza?

«È stata una location perfetta. Magnifica, estremamente bianca, e nella notte scura con gli abiti scuri degli invitati si prestava molto bene al bianco e nero. Alle ville palladiane poi sono ispirate non solo la Casa Bianca o Capitol Hill, ma mi piace ricordare anche il deposito di denaro di Paperon de’ Paperoni».

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