"A casa bambola!", Quotidianacom debutta al Teatro delle Moline

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1879, Henrik Ibsen mette in scena “Casa di bambola”, dove senza falsi pudori svela le ipocrisie del rapporto di coppia e del perbenismo borghese che lo attraversa. I coniugi sono scandagliati nella profondità del loro intimo sentire ed ecco venire a galla i comportamenti più negativi, dettati dall’egoismo maschile e dalla strenua difesa di interessi personali e sociali che negano alla donna dignità e autodeterminazione. 11-22 gennaio 2023, Quotidianacom debutta al Teatro delle Moline di Bologna con A casa bambola! (produzione Ert/Opera estate festival), ispirato al testo del drammaturgo norvegese e attualizzato alla maniera pungente e sarcastica propria della compagnia riminese. Personalissima rilettura in chiave contemporanea che, in 70 minuti, obbedisce al bisogno di denuncia, mettendo il dito nella piaga sanguinante della realtà, in questo caso messa in evidenza dal dramma classico, in altri reinventata come nel recente e intenso lavoro “Tabù” o nel nuovissimo progetto “I Greci, gente seria! Come i danzatori”, vincitore nelle scorse settimane del Premio Tuttoteatro.com alle arti sceniche Dante Cappelletti (doppio premio bissato dalla giuria popolare), con una motivazione che inneggia al loro «quotidiano lavoro che definire surreale sarebbe limitante, in cerca continuamente di nuovi limiti da trasgredire». Quello di Paola Vannoni e Roberto Scappin è «un percorso di ricerca e sperimentazione che prosegue nel solco di una scrittura dialogica fatta di domande e risposte, temperature surreali e comiche che hanno un valore politico, perché si inseriscono nei nodi gordiani dell’etica, dell’estetica e, più in generale, dei dilemmi esistenziali. E che cerca una sua cifra espressiva nella stilizzazione dei due personaggi dialoganti, nella loro recitazione pacata ma sorniona, apparentemente immobile ma icastica, che amplifica l’effetto straniante e ironico dei loro testi». Così scrive Graziano Graziani nell’introduzione alla loro trilogia Tutto è bene quel che finisce (Titivillus, 2022) che sarà presentata il 13 gennaio alle 18.30, prima dello spettacolo alle Moline, con interventi degli autori, di Laura Gemini e Massimo Marino.

Paola, perché oggi riprendere Ibsen e proprio “Casa di bambola”?

«Rientra nel nostro lavoro di ricerca sui classici, e questo è il primo capitolo della trilogia dal titolo “7 note in cerca d’autore” in cui ci confrontiamo con autori classici. Ibsen fa da innesco alla questione dei diritti e dell’intimità, poi ci sposteremo su Pirandello, per la messa in discussione dell’edificio della rappresentazione e della soggettività, e infine su Shakespeare, per la complessità tragica e linguistica».

Sono passati 150 anni dalla prima rappresentazione, ma il ruolo privato e sociale della moglie non è cambiato poi così tanto se si guarda ai femminicidi, uno in media ogni due giorni. Siete partiti da qui?

«Il lavoro parte dal terzo atto del testo originale e si sviluppa sui doveri e sulla sottomissione della moglie. La nostra è una ricognizione intorno ai diritti negati, ai precetti a uso e consumo, alla protervia del sistema patriarcale, alla viltà di servirsi dei pregiudizi a difesa dei privilegi».

Il rapporto di coppia nella vostra cifra contenutistica è sempre sviscerato a svelare i più profondi meandri relazionali, fino a farsi male; sembra che questa vostra personale messa in scena sia quasi una scelta naturale.

«Potrebbe, forse. Tutto parte dal nostro Dna. In questo caso la nostra riscrittura vuole mettere in evidenza il ruolo imposto alla donna, vista sempre come madre che obbedisce alle regole in nome della sua capacità di amare incondizionatamente. Per questo noi partiamo da quando Nora con determinazione decide di lasciare il marito. Lì emergono le tensioni e l’uomo mostra la sua incapacità ad ammettere che ha bisogno di aiuto».

Una particolare recensione vi ha ispirato, ci spiegate perché?

«Sì, è quella scritta nel 1917 su “Avanti!” da Antonio Gramsci che così recensì “Casa di bambola”, andata in scena al Carignano di Torino: “Perché gli spettatori, i cavalieri e le dame che l’altra sera hanno visto svilupparsi, sicuro, umanamente necessario, il dramma spirituale di Nora, non hanno a un certo punto vibrato con la sua anima, ma sono rimasti sbalorditi e quasi disgustati della conclusione?”. Ecco, questo ci ha stimolati. E crediamo che serva puntare il dito contro il sistema patriarcale e i diritti negati delle donne, esaltando nella scelta di Nora il valore di un’emancipazione ancora oggi non pienamente raggiunta».

Cosa c’è in scena?

«Noi due siamo soli in scena con un ampio tendaggio alle spalle e un tavolo. Non c’è un tappeto musicale se non un solitario motivetto di Bach, non amiamo la musica che è “acchiappona”, noi ci affidiamo al suono del silenzio delle nostre pause».

Roberto, quanto fa bene ricevere un premio prestigioso per le proprie creazioni?

«L’immaginare è un atto sovversivo, è un gesto politico, e vedere premiata una costruzione drammaturgica è un’iniezione di endorfine, di ormoni che fanno stare bene. Del resto il progetto che ha vinto mette proprio in relazione mente e corpo: i miei 11 passi di danza abbinati alla parola la arricchiscono in modo eclettico e innovativo».

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