1991: a Rimini l'addio al Pci. Il ricordo di chi c'era

Cultura

Alle cinque di mattina del 31 gennaio 1991, nel capannone di fianco all’auditorium della vecchia fiera, non si aveva certo la sensazione di essere di fianco alla storia. In una stanza ricavata con divisori, alta, non troppo illuminata, anche un po’ freschina vien da ricordare, non si era nemmeno tanto certi di cosa si stava a fare lì, un gruppetto di giovani assonnati, tutti più o meno impegnati in qualche forma politica o sociale o nel giornalismo o figli d’arte o chissà perché capitati lì.
Tra il diavolo e l’acqua santa
Per chi scrive, all’epoca giornalista in formazione che si divideva professionalmente tra l’acqua santa del Ponte – settimanale diocesano – e il diavolo dell’Unità, era l’occasione per vedere come funzionava la professione – e la politica – da dietro le quinte di un grande evento. Con gli occhi del garzone, insomma, volenteroso ma pur sempre garzone. E quindi un (bel) po’ sprovveduto.
Per altri, era un’occasione per partecipare. Ma a cosa, beh, il tutto appariva abbastanza oscuro, sotto il soffitto di cemento della vecchia fiera. C’erano Marcello Ceccarelli e Federico Chicchi, con i quali condividemmo prima le dimostrazioni in piazza contro la prima guerra del Golfo, poi la fondazione di Ulisse, giornale “di formazione” di un cospicuo gruppo di universitari riminesi. C’era Micaela Piccari, poi consigliera di Quartiere nell’unico in mano alla destra riminese. E c’era la schiva e gentile Lia Celi, che sarebbe diventata per noi la dea della scrittura umoristica su Cuore, il geniale appuntamento con la satira politica. Eravamo in parecchi, ma le estati e gli inverni riminesi hanno mietuto abbastanza neuroni per rendere opalini parecchi volti. Scusate.
La rassegna stampa
Ci diedero una cospicua mazzetta di giornali, forbici, colla e via a ritagliare gli articoli, da fissare su una pila di fogli A4: il nostro XX congresso del Pci, a Rimini, iniziava con la rassegna stampa mattutina. Per chi scrive era una pacchia: i software di impaginazione erano di là da venire e Il Ponte si faceva così, incollando le strisce degli articoli, poi fotografando il tutto da mandare in tipografia. E anche gli altri, non è che si sfiduciarono di fronte a chissà quale lavoro impegnativo. Ugualmente, non fummo “performanti”, e la rassegna stampa uscì con parecchie ore di ritardo, forse a mezzogiorno. Quando ce lo fecero notare in modo vigoroso, chi scrive cominciò a capire in cosa era capitato: davvero una macchina da guerra. Toccava svegliarsi.
Fotocopiatrici come cattedrali
Al piano di sotto c’erano fotocopiatrici grandi come cattedrali. A un capo delle quali c’erano uomini metà braccia e metà sedia che smazzavano costantemente risme di fogli A4 perché, spiegò Beppe Lombardo, così le macchine non si inceppavano. Bancali su bancali di movimenti cartacei sussultori. Le rassegne stampa arrivavano nel grande auditorium, dove la politica rimbombava. Finito il turno del ritaglio si andava a mangiare: passato il ponte che univa l’auditorium alla vecchia fiera, si apriva una cittadella, ettari ed ettari di mense, stand, librerie, centinaia di persone che pulsavano nei corridoi densi come globuli nelle arterie di un essere umano. Mai vista prima la politica così: un corpo pulsante fatto di migliaia di anime e milioni di interessi e necessità.
Grandi colleghi e “trova ospiti”
Dei baldi ritaglisti, chi voleva pascolava tra il brusio dell’auditorium o al servizio dei giornalisti, che vedevamo nelle postazioni. Micaela era diventata l’assistente di Giampaolo Pansa, tanto che si preoccupò una mattina per un ritardo, dovuto a impegni scolastici. Lei invece sveniva per gli occhioni azzurri dell’inviato di Radio Montecarlo, Tiberio Timperi. Chi scrive faceva il “trova ospiti” per le radio o i giornalisti. Si captava qualcosa ogni tanto, in quell’aria elettrica, densa di emozioni, ci si sentiva un tenente Drogo tutto compito che distillava momenti. La commozione di Tortorella: «Entro nel Pds coi compagni della mia vita». O la visione di D’Alema, appoggiato al leggìo, che con nonchalance avvertiva i «cari compagni» che «il comunismo è finito», con la caduta del muro di Berlino. Un big bang in una giovane mente, quasi lapalissiano all’epoca visto l’accaduto di due anni prima, oggi un concetto politico ancora non assimilato, evidentemente… In quel momento venne giù un magone, ma un magone!

  • membro volontario dell’ufficio stampa del Congresso del 1991

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui