Il Cesena, il braccio del match-point e il ragazzino triste che alzò due Champions

C'era il rischio del braccino di fronte al match-point, si è visto solo il braccione e ieri si sono prenotate tante storie per il film del campionato. La stordente bravura di Daniele Donnarumma al cross. Hraiech Saber e Giuseppe Prestia con una rabbia che è a livelli da ebollizione dall’ultimo rigore del Lecco ai play-off, fino all'ovazione post-partita per Domenico Toscano, uno che è primo con la squadra più forte, ma bisogna anche essere capaci di allenare la squadra più forte. E poi quattro giocatori del settore giovanile titolari nel momento cruciale: Pieraccini, Francesconi, Berti e Shpendi sono la vera differenza dallo scorso campionato. Ieri mancavano Silvestri, De Rose, Varone e Kargbo, oltre a Ciofi: non se n’è accorto nessuno, da mesi non se ne accorge nessuno. Se la proprietà americana avrà la sensibilità di capire fino in fondo che l’anima del Cesena resta il settore giovanile, allora può davvero ripartire qualcosa in prospettiva, con un calcio innanzi tutto sostenibile e poi magari vincente.

Le prestazioni dei giocatori usciti dal vivaio sono un segnale potentissimo per un mondo di minorenni che sogna di sfondare del calcio passando dal Manuzzi, sulla scia di una storia d’altri tempi, quando Domenico Toscano aveva 19 anni e Francesco De Rose appena 3.

Autunno 1990. In un’auto che procede verso Cesena, c’è un giovane calciatore pieno di malinconia.

«Non ce la faccio più, torniamo a casa».

«Sei sicuro? Vuoi mollare così presto?».

«Qui non gioco mai. Basta, sono stanco».

«Davvero?».

«Sì, basta dai. Esco tutti i giorni di corsa da scuola per venire a Cesena. Non vedo più i miei amici e sto sempre in panchina. Non ne vale la pena».

«Io e la mamma non ti obbligheremo mai a fare quello che non vuoi. Però aspetta almeno la fine di questo campionato. Non prendere decisioni affrettate, magari va a finire che ti penti».

Il signor Guerrino fa il farmacista e tutti i giorni porta il figlio al campo di allenamento. Suo figlio ha 13 anni, gioca attaccante ed è stato acquistato dal Cesena, ma l’impatto è stato tosto anche per un ragazzino pieno di energia come quello che carica ogni pomeriggio sulla sua Renault bianca in direzione Villa Silvia. Un campionato pieno di panchine, monta la voglia di mollare, poi un’estate di riflessione e il ragazzino decide di tenere duro. La fatica mica lo spaventa: quando aveva 10 anni giocava in due squadre, una di calcio (l'Adriatico) e una di basket (la Falco), l’altra grande passione.

Autunno 1991. Ora la squadra ha un nuovo allenatore, si chiama Davide Ballardini, che ripete a tutti: «Al compagno libero davanti, va sempre passata la palla. La palla da sola è più veloce di voi che correte palla al piede». Ballardini gli cambia ruolo, diventa un centrocampista, si struttura nel fisico.

Guerrino continua a fare il tassista agli allenamenti e con la signora Paola non si perde una partita. Quando poi lascia il figlio a Villa Silvia, si mette in disparte in tribuna, ma appena sente chiacchiere che non gli piacciono, si sposta lontano e nei casi estremi esce e aspetta in strada. L’ex centravanti (ora mezzala) sa che papà e mamma sono i suoi primi tifosi, ma non sentirà mai la loro voce mentre gioca.

Brucia le tappe e a 17 anni conquista Bruno Bolchi. «Questo è proprio forte - dice Bolchi al fidato Emilio Bonci - se impara a divertirsi giocando, finisce in A».

La prima squadra è la fine di un percorso lastricato di levatacce alla domenica mattina: quando si gioca alle 10.30 con Giovanissimi o Allievi, la giornata inizia prestissimo e va alla messa delle 7 con i genitori dalle suore in sacrestia, poi si sale in auto e via in A-14 fino a Cesena.

Gioca e cresce all’ombra di genitori che sembrano invisibili, invece ci sono sempre e nel momento decisivo dicono: “Decidi da solo. Se hai bisogno, noi siamo qui”. Un tipo di parole che fanno la differenza. I casi di Tonali e Fagioli ci ricordano che la noia e la solitudine dei ragazzi possono diventare una brutta bestia e in certi momenti di debolezza, i soldi non riparano nulla, anzi: aumentano i guai. Contano le parole giuste al momento giusto, quelle che tracciano il solco tra un mezzo giocatore e uno che alzerà due Champions. «Se hai bisogno, noi siamo qui». Sei parole, non di più. Era tutto quello che serviva a un ragazzino triste che poi è diventato Massimo Ambrosini.

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