“Io scampato a sette colpi dell’Uno Bianca, vivo per miracolo”

Rimini

RIMINI. «Io scampato a sette colpi dell’Uno Bianca, vivo per miracolo». Nato in Canada nel 1963 e tornato in Italia all’età di cinque anni, il 60enne Vito Tocci era un carabiniere scelto di 27 anni, a capo di una pattuglia, quando con due colleghi ventenni restò ferito sotto una scarica di colpi di fucile a canne mozze. Era il 30 aprile del 1991. Nella giornata di ieri ricorreva l’anniversario della notte in cui a Miramare di Rimini, verso l’una e quaranta, all’imbocco del cavalcavia di via Siracusa, finì nel mirino del gruppo criminale ribattezzato la banda della Uno bianca che, attivo fra il 1987 e il 1994 tra Emilia-Romagna e Marche, uccise in svariati colpi 24 persone ferendone 114. Una vicenda su cui Tocci, non ha mai smesso di puntare i fari perché, dice, «conosciamo solo gli esecutori materiali ma sono convinto dell’esistenza di complici e mandanti ed è per questo – sottolinea - che a maggio dello scorso anno con alcuni familiari delle vittime e tramite gli avvocati Alessandro Gamberini e Luca Moser, abbiamo presentato un esposto alle procure di Bologna, Reggio Calabria e della procura nazionale antiterrorismo chiedendo e ottenendo da Bologna la riapertura delle indagini». Una decisione seguita alla raccolta di documenti che a suo avviso dimostrano un’unica pista: «Diverse azioni di sangue compiuto dalla banda Savi – afferma - nascondono altre verità in una storia dove si annidano troppi lati oscuri tra cui la sparizione di fogli di servizio delle pattuglie dei carabinieri uccisi e testimoni che accusano innocenti ma non subiscono alcun procedimento penale».

Tocci, come sta oggi?

«Ho un’intossicazione da piombo per i quattro proiettili che mi sono rimasti in corpo ma è impossibile rimuovere senza rischi: in particolare quelli vicino alla pleura, in mezzo alle costole e nell’articolazione della spalla sinistra. Convivo con questa spada di Damocle e ogni sei mesi mi sottopongo a controlli, mentre lo stress sale a dismisura».

Cos’è peggiore delle ferite?

«Che questa storia faccia ancora paura. Vogliono imbavagliare i sopravvissuti ma non ci fermeremo anche se, a nostro avviso, è in atto un’opera di censura sui familiari delle vittime, ogni volta che sono invitati in tv. Quanto a me, sono vivo per miracolo ma solo qualche mese prima del mio agguato tre giovani colleghi sono stati trucidati nel quartiere Pilastro di Bologna».

Continuerà a lottare?

«Ho giurato che mi batterò per la verità e la giustizia, valori che non ho mai abbandonato anche quando, dopo quella maledetta notte, mi sono congedato dall’Arma. Spero in quei poliziotti e carabinieri onesti che indagano, alla riapertura delle indagini, e auspico che istituzioni e giornalisti ci aiutino nel cammino. Credo che questo impegno sia un dovere per onorare chi ha sacrificato la sua vita».

Cos’è cambiato nella sua?

«Vivo con l’immagine dell’agguato fissa in testa. Mi sveglio nel cuore della notte e la normalità è non riprendere sonno. Ripercorro una manciata di minuti interminabili milioni di volte e a volte mi chiedo se durante quel servizio notturno ho fatto tutto il possibile. Se non altro la risposta è positiva ma soffro di attacchi di panico. Nulla tuttavia mi convincerebbe a arrendermi. dalla prima linea sono stato promotore e poi presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della Uno bianca dal 2005 al 2006».

All’epoca dell’agguato era papà?

«Da pochi mesi mia moglie era incinta della nostra bambina».

È ancora in contatto con i suoi colleghi?

«Ci siamo sentiti anche stamani (ieri, ndr) e tuttora ci lega un sentimento fraterno. Mino De Nittis che era al volante è in pensione mentre l’ausiliario Marco Madama, seduto dietro di noi 31 anni fa, è diventato un insegnante».

Perché venne organizzato l’agguato?

«La banda mirava, non a eludere un nostro controllo, ma a ammazzarci. Ci salvammo solo perché gridai all’autista di dare gas per uscire dalla linea di tiro. Al contempo nonostante le ferite riportate e l’esplosione del parabrezza e del lunotto della nostra Ritmo, diedi l’allarme e la banda che era collegata con le nostre radio di servizio preferì dileguarsi dopo aver terminato i proiettili del fucile a canne mozze: 5 cartucce ognuna con 9 pallettoni. Anche i miei colleghi erano rimasti feriti, ma alle spalle. La fortuna che ha scongiurato l’epilogo peggiore è stata la distanza molto ravvicinata che ha impedito alla rosa di tiro di allargarsi. Prima di farci curare in ospedale varie manovre ci hanno condotto da via Mantova in un senso unico al contrario per finire poi sul lungomare dove intercettare eventuali testimoni».

Nel 1991 non si parlava ancora di evento post traumatico, lo Stato vi è stato vicino?

«Sì, anche se non era scontato, ha varato leggi apposite per equipararci alle vittime del terrorismo. Chiedo solo una cosa».

Prego.

«Che le commissioni competenti mi spieghino perché, mentre nel 2024 sono stato insignito della medaglia d’oro come vittima di terrorismo, nel 2008 mi è stata rifiutata quella al valor civile e senza addurre motivazioni».

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