Riccardo Fazi di Muta Imago al Santarcangelo Festival

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Torna al “Santarcangelo festival” Muta Imago, la compagnia-collettivo teatrale guidata dai fondatori Claudia Sorace, regista, e Riccardo Fazi, drammaturgo e sound designer. «Pieni di gioia per essere qui» portano il nuovo lavoro, “Sonora desert”, in scena a Villa Torlonia alle 18.30 (repliche alle 20, 21.30 e 23) e lo stesso il 15 e il 16 luglio.

Uno spettacolo sui generis col carattere esperienziale pensato per invitare il pubblico partecipante a esplorare una dimensione liminale del sé, muovendosi tra ricordi personali, memoria inconscia e immagini archetipiche, in dialogo con le musiche appositamente composte da Alvin Curran. Alla base c’è un vero e proprio studio progettuale che indaga il rapporto tra percezione e stati di coscienza, ispirato al viaggio compiuto nel deserto di Sonora, al confine tra Arizona e Messico, partendo dalle pagine del diario di bordo.

«Si tratta di una forma ibrida a cavallo tra concerto, installazione e performance sonora – dice Fazi –. In sintesi un’esperienza percettiva».

Ma ci sono attori in scena?

«No. È senza corpi. È la prima volta che noi non siamo sul palco. Questo perché ci siamo chiesti come ripartire in modo che il lungo distacco tra persone potesse essere risolto, per riallacciare un contatto che non c’è stato per un tempo così lungo. Non si può fare finta di niente come se nulla fosse accaduto. Così abbiamo deciso di ripartire da questa dimensione di svuotamento e di riflettere sulla sparizione dei corpi. Capire cosa succede e cosa succederebbe in una dimensione apocalittica, post umana».

È come se ogni spettatore si sentisse in un grembo?

«Esatto, è la giusta metafora. Abbiamo volutamente immaginato un ritorno in una dimensione uterina. Tutt’intorno colori, luci, vibrazioni, suoni, immagini a comporre l’involucro da cui ci si sente avvolti».

Cosa accade al pubblico?

«Ai venti spettatori chiediamo di uscire dal sé, dallo spazio e dal tempo, lasciandosi trasportare nel fluire di ciò che arriva dall’esterno. Siamo all’interno di Villa Torlonia e occupiamo tre spazi. La sala del teatro dove ha luogo l’esperienza, l’anticamera dove si forniscono gli strumenti narrativi e tematici, e la sala delle colonne spazio di decompressione».

Dove stanno gli spettatori?

«Distesi su amache per favorire un graduale abbandono. Tutto intorno è vuoto e il palco anatomico è formato da tutti i presenti. Un teatro della mente dove la dimensione esperienziale diventa parte integrante del lavoro».

La pandemia ha introdotto cambiamenti percettivi che anche le arti sceniche devono affrontare?

«Sì, certo. C’è un clima che è un misto tra paura e desiderio e noi riteniamo che questa sia una dimensione fertile. Per questo bisogna agire in modo diverso da prima».

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