Ravenna, resa sterile dopo il parto cesareo: ginecologo assolto

Archivio

Giunta al quinto parto cesareo rischiava, qualora fosse rimasta incinta un’altra volta, di mettere in pericolo la salute del bambino che aveva in grembo e perfino la sua stessa vita. Il suo ginecologo l’aveva avvisata, e al termine dell’intervento chirurgico, nato sano e salvo il bimbo, aveva sottoposto la madre all’operazione che le avrebbe evitato futuri problemi: le aveva legato le tube, impedendole di rimanere di nuovo incinta. Una decisione concordata, a detta del medico. Non secondo la donna, una 36enne di origine straniera, che un mese dopo il parto ha denunciato il dottore. Ieri il processo che lo vedeva imputato per lesioni gravissime si è concluso con la sua assoluzione, come peraltro chiesto dal sostituto procuratore Angela Scorza.

La denuncia un mese dopo

I fatti risalgono alla fine di maggio del 2014, quando all’ospedale di Faenza il parto è andato a buon fine. A dirigere l’intervento era proprio il ginecologo di lunga data della paziente, che l’aveva seguita fin dal 2006, anno della prima gravidanza. Stando a quanto denunciato, la donna avrebbe scoperto di essere stata resa sterile solo dopo essersi recata nuovamente dal dottore per avere consigli su una terapia contraccettiva alternativa a quelle seguite in passato, che le avevano dato problemi. Lui l’aveva rassicurata, spiegandole che non sarebbe più stato necessario alla luce di quanto fatto al termine dell’ultimo cesareo. Solo allora, sostenendo di non essere stata informata e di non avere espresso alcun consenso, la donna ha sporto querela.

Nel corso del processo davanti al collegio penale presieduto dal giudice Cecilia Calandra (a latere Natalia Finzi e Antonella Guidomei) sono tuttavia emersi numerosi documenti e testimonianze discordanti rispetto alla versione fornita dalla parte offesa. A partire dal referto medico rilasciato alla paziente. Oltre alla terapia da seguire, era stata puntualmente indicata nella cartella clinica la tipologia di operazione effettuata.

L’imputato - difeso dall’avvocato Sammarchi - ha sostenuto che ci fosse un accordo già prima del parto. Pur titubante, la donna aveva accettato di valutare all’esito del cesareo lo stato dell’utero prima di decidere il da farsi. E come previsto dal dottore, la situazione si era rivelata compromessa, al punto da informare subito la paziente, prima di iniziare con la sutura. Lei, descritta anche da altri medici presenti come vigile, avrebbe espresso un timido consenso con un “mugugno”.

L’influenza del marito

Perché allora sporgere denuncia dopo un mese? Il legale dell’imputato ha ipotizzato a monte della querela l’esistenza di una questione culturale, dettata dal fatto che «nel Paese d’origine della paziente è diffusa la poligamia» e «alle donne viene attribuita una funzione riproduttiva». Oltretutto, secondo il difensore, il marito, «fino a quel momento completamente assente, è diventato presentissimo quando è emersa la possibilità di un risarcimento», vedendo cioè la moglie passare dall’essere «sorgente di produzione di figli a sorgente economica».

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui