di ANDREA ROSSINI
RIMINI. Dietro agli occhioni da bambina nascondeva un’inquietudine adolescenziale che la spingeva a bruciarsi in fretta. Nessuno, però, avrebbe potuto prevedere una fine così triste e ancora con molte zone d’ombra. E’ stata identificata la giovane trovata morta il 25 ottobre scorso in un container in disuso nell’area dello scalo merci della stazione ferroviaria di Santarcangelo di Romagna. Si tratta di Mariapia Galanti, diciannove anni, di Misano Adriatico. La ragazza aveva lasciato la casa dei genitori, con i quali era tornata in buoni rapporti dopo una vicenda giudiziaria che aveva contrapposto l’una agli altri, alla fine di agosto. La madre ne aveva denunciato la scomparsa ai carabinieri della stazione di Misano Adriatico il 16 settembre scorso. «L’ho sentita al telefono per l’ultima volta il 4 settembre e ha detto che stava bene: da allora però non ha dato più notizie di sé». Dopo quella data non ha avuto contatti neppure con le amiche più strette. Gli accertamenti disposti dal pm Paolo Gengarelli hanno confermato il sospetto che la “ragazza senza nome” fosse proprio Mariapia. I genitori, pur non riconoscendo nelle foto gli abiti che indossava la giovane trovata morta, avevano un brutto presentimento. Al punto da rivolgere un appello agli investigatori: «Fateci vedere il cadavere». Uno strazio che è stato loro evitato. Del corpo, al momento del ritrovamento, rimaneva ben poco a causa dell’avanzato stato di decomposizione: il medico-legale Pier Paolo Balli non è potuto risalire alle cause della morte, “datata” da lui stesso in un periodo compatibile con quella più probabile, ai primi di settembre. Per sapere se c’è di mezzo la droga bisognerà attendere l’esito delle analisi tossicologiche. Secondo alcune testimonianze aveva cominciato a fumare eroina e per procurarsela frequentava dei nordafricani. Gli investigatori (Squadra mobile e carabinieri della sezione di pg della procura) sono al lavoro per ricostruire gli ultimi giorni della ragazza. Un amico (che all’indomani del ritrovamento aveva riconosciuto le scarpe e l’anellino che lui stesso aveva regalato a Mariapia) ha raccontato di averla accompagnata in ospedale a Rimini l’1 settembre (accusava un dolore al polpaccio). Due sere prima la ragazza era stata identificata da carabinieri e polizia municipale di Rimini all’interno di un albergo in disuso. Il 3 settembre, infine, un giudice di pace aveva notato la diciannovenne in difficoltà lungo via Tripoli e aveva sollecitato l’intervento del 118. Trasportata in ambulanza al pronto soccorso, aveva rifiutato di sottoporsi a una visita più approfondita. In preda a uno stato d’ansia (forse indotto dall’astinenza?), si era limitata a chiedere inutilmente la somministrazione di un particolare sedativo, che però non poteva esserle prescritto. Il giorno dopo, 4 settembre, l’ultima telefonata alla madre. «Sto bene, tranquilli». Poi più niente. Verosimilmente la ragazza quella sera ricorse a un riparo di fortuna. Probabilmente non era da sola nel container dove è stata trovata morta cinquanta giorni dopo. Ed è questo che si cerca di appurare per capire di che cosa è rimasta vittima (malore? overdose? qualcosa d’altro?).
La notizia dell’identificazione del cadavere, dopo che inizialmente alcuni elementi sembravano poterli rassicurare, ha gettato nello sconforto i genitori. A lungo avevano cercato di frenare l’esuberanza e l’atteggiamento ribelle della figlia. Alla fine, senza che loro avessero mai denunciato i presunti maltrattamenti subiti, le era stato notificato dal giudice un provvedimento di “allontanamento”. Se l’era cavata con una condanna a dieci mesi in primo grado (che l’avvocato difensore Flavio Moscatt puntava a far cancellare in appello), e nel frattempo la ragazza si era riavvicinata alla famiglia: faceva base nella casa dei genitori e a volte aiutava anche il padre al lavoro. Speravano di poterla riaccogliere anche stavolta a braccia aperte, ma il lungo silenzio di queste settimane, purtroppo, come hanno scoperto ieri, non dipendeva da lei.