Lina Wertmüller, oggi il premio alla carriera a Bellaria

In principio era Werdmüller von Elgg Esapañol von Brauchich. Ma l’ultimo a chiamarsi così fu il vecchio barone spadaccino Heinrich, trisavolo di Lina Wertmüller arrivato in Italia per sfuggire alla legge svizzera dopo avere ucciso in duello un rivale in amore.

«Non si sa perché durante questo periodo napoletano la “d” si trasformò in “t”, Werdmüller in Wertmüller”» racconta la celebre e pluripremiata regista nella sua autobiografia “Tutto a posto niente in ordine. Vita di una regista di buon umore” pubblicata da Mondadori nel 2012.

Appuntamento a Bellaria

Lina Wertmüller, 90 anni compiuti lo scorso agosto, sarà al Bellaria film festival oggi 30 dicembre, dove le verrà consegnato un premio alla carriera e dove sarà proiettato (ore 18.30, cinema Astra) il film di Valerio Ruiz Dietro gli occhiali bianchi; un documentario del 2015 che ne ripercorre la carriera. Già, quegli occhiali bianchi, da tempo immemore segno distintivo di una regista che ha lasciato pellicole indimenticabili, da Mimì metallurgico ferito nell’onore a Film d’amore e d’anarchia, da Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto a Pasqualino Settebellezze… Titoli quasi tutti lunghissimi, diventati un po’ un marchio di fabbrica. Che lanciarono, soprattutto, una coppia cinematografica come Mariangela Melato e Giancarlo Giannini. La battuta di quest’ultimo – «bottana industriala» – in Travolti da un insolito destino, storia d’amore tra un marinaio comunista e una ricca borghese su un’isola deserta, rimane scolpita negli annali.

Ma da ricordare è anche l’esperienza televisiva, tra tutti la regia de Il giornalino di Gianburrasca con Rita Pavone.

Mentre la carriera cinematografica vera e propria di Lina Wertmüller inizia nel 1963 con I basilischi, subito dopo l’esperienza da aiuto regista in 8 ½ di Federico Fellini. Il loro è stato un legame di amicizia durato tutta la vita.

Nella sua autobiografia, a proposito della collaborazione in “8 ½”, lei ha dichiarato: «Tutto sommato io penso di essere stata una pessima aiuto regista». Lo pensa davvero? E quanto è stata fondamentale per lei quell’esperienza per la sua carriera di regista?

«Eh sì, lo credo (sorride, ndr), ma a Fellini ero molto simpatica. Quando arrivavo sul set, la troupe diceva: “Arriva l’aiuto regista col visone”… Fellini è stato un regalo unico che mi ha fatto la vita e non potrei delegare a poche parole quanto sia stato importante per me. Posso dire che conoscerlo è stato come affacciarsi a una finestra e guardare un panorama meraviglioso che non avevo mai visto prima».

Ha scritto a proposito del vostro incontro: «Quella che provai, appena lo conobbi, fu la sensazione di aver ritrovato un caro amico di infanzia, una di quelle persone con cui potrebbero beccarti a mettere le mani nella marmellata». È stata un’amicizia, la vostra, basata su una complicità rara tra uomini e donne. Pensa che abbia a che fare con il fatto che nelle sue vene scorre un po’ di sangue del suo antenato barone Heinrich Werdmüller?

«Non saprei, può darsi! Quel mio antenato ne ha fatte di tutti i colori, era sicuramente una persona vitale e coraggiosa. Credo però che tra artisti le differenze uomo-donna non contino poi molto. Contano altre cose. La stima, la bravura, la simpatia. Come le dicevo, sono sempre stata molto simpatica a Fellini e io lo adoravo. Dico spesso che standogli accanto avevo l’impressione di trovarmi con un grande mago, mi rendeva complice delle sue magie e delle sue biricchinate».

A proposito di “8 ½”: lei cosa ricorda dell’ultima sequenza? Ovvero del finale alternativo?

«Ricordo solo che era ambientata tutta su un treno. Un lungo vagone con tutti i personaggi vestiti di bianco. Credo volesse simboleggiare la morte. Sono contenta che invece Fellini preferì concludere con il girotondo e quell’indimenticabile frase: “La vita è una festa, viviamola insieme”».

Sul set di “8 ½” lei si mise a fare delle riprese con una piccola Arriflex. Ricorda cosa ha poi fatto di quelle immagini?

«Non ne feci assolutamente nulla e anzi, con gli anni mi ero anche dimenticata di aver fatto quelle riprese. Per fortuna Valerio Ruiz, mentre faceva ricerche per il documentario sulla mia vita (Dietro gli occhiali bianchi), lo ha trovato nel mio archivio e lo ha riportato alla luce, costruendoci intorno una bella scena sul mio rapporto con Fellini».

Tullio Kezich nella sua biografia su Fellini inserisce “I basilischi”, il suo film d’esordio, vincitore del festival di Locarno e di numerosi altri premi, tra i film che presero a modello “I vitelloni”. Le affinità sono evidenti. Nel suo finale però non c’è un Moraldo che parte per Roma per non fare più ritorno: Antonio va per un breve periodo a Roma poi torna al paese. Perché scelse questo tipo di finale?

«Perché all’epoca sentivo molto il problema dei giovani che lasciavano il sud per andare a studiare nelle grandi città del centro nord. Volevo raccontare l’importanza di restare nelle proprie terre, per farle crescerle, valorizzarle e non lasciarle abbandonate a loro stesse. “Se vogliamo cambiare le cose, è qui che dobbiamo stare” facevo dire a uno dei personaggi. Con quel film credo di avere acceso una luce su un problema comune a molti Paesi, non solo l’Italia. Per questo il film vinse a Locarno contro ogni mio scetticismo. E il problema è ancora attuale».

A differenza di Fellini che racconta Rimini andando a girare a Ostia e dintorni, lei è andata davvero a girare nella terra dove si stabilirono i suoi progenitori, a Palazzo San Gervasio, in Basilicata. Che posto ha per lei, oggi, guardando alla sua intera carriera, quel suo primo film?

«Il primo film, come il primo amore, non si scorda mai. Lo girammo in 14 giorni con un budget intorno ai 38 milioni di lire. All’epoca un’opera prima ne costava circa 100… Fu una grande avventura e per fortuna il film piacque molto. Se non ricordo male vinse qualcosa come 14 premi internazionali».

Giannini, Melato, Mastroianni, Loren, ma anche Faye Dunaway, Nastassia Kinski, Michele Placido, Roberto Herlitzka… Lei, oltre ad avere reso celebre la coppia Giannini-Melato, ha sempre diretto grandissimi attori. Con chi di loro avrebbe voluto ancora lavorare e perché?

«Lavorerei di nuovo con tutti gli attori dei miei film perché li ho amati molto».

Se dovesse indicare a un giovane di oggi uno o più tra i suoi film da vedere per conoscere il cinema di Lina Wertmüller, quale o quali indicherebbe per primi?

«Gli direi di vederseli tutti! Non riesco a fare preferenze tra i miei film, li amo tutti, soprattutto i meno fortunati».

Verrà a Bellaria per ritirare un premio alla carriera. Cosa conosce e le piace dell’Emilia-Romagna?

«La vostra è una regione bellissima. Terra di grandi artisti e grandi registi, basta dire Fellini e Bertolucci… E poi la identifico con uno dei miei scrittori preferiti, Giovanni Guareschi, davvero un mito per me. Sono felice di avergli reso omaggio facendo Il decimo clandestino con Piera Degli Esposti. Piera, che non a caso è bolognese, per me è la più grande attrice del mondo».

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