Natalini: la gestione dei rischi globali

La vicenda del Coronavirus ci ha ricordato quanto ciascuno di noi sia fragile ed esposto ai rischi globali. In un mondo sempre più interconnesso, una crisi finanziaria, migratoria, climatica o epidemica, il cui luogo di origine può essere anche lontanissimo, ha ripercussioni, più o meno acute, su tutto il resto del mondo. E ci chiama in causa, in breve tempo. Non è la prima volta che accade nella storia.

Nel 1815, ad esempio, una catastrofica eruzione del vulcano Tambora in Indonesia provocò un impatto devastante su tutto il Pianeta: il totale dei morti a causa degli sconvolgimenti climatici che seguirono, compreso l’anno senza estate (1816) a causa della fuliggine che persistette a lungo nell’atmosfera, superò le 200 000 unità. E che dire dell’influenza spagnola (nata in realtà anch’essa in Asia, ma chiamata spagnola perché i giornali di quel paese ne parlarono diffusamente in quanto la Spagna non era coinvolta nella prima guerra mondiale e quindi i giornali non erano sottoposti a censura) che fra il 1918 e il 1920 arrivò ad infettare circa 500 milioni di persone in tutto il mondo, inclusi alcuni abitanti di remote isole, provocando il decesso di 50-100 milioni di persone (dal 3 al 5% della popolazione mondiale dell'epoca)? E poi l’influenza asiatica (1957-1960: circa due milioni di morti), Hong-Kong (1968), SARS (2002-2003)? Ciò che è cambiato oggi è che il numero degli abitanti sulla Terra sta aumentando impetuosamente (siamo 7,7 miliardi di abitanti; l'Onu prevede che nel 2030 saremo 8,5 miliardi, 9,7 miliardi nel 2050 e 11,2 miliardi nel 2100), che le interconnessioni commerciali, economiche, finanziarie, logistiche ci rendono tutti molto più dipendenti gli uni dagli altri, che più crisi globali possono esplodere simultaneamente e propagarsi velocemente: il Coronavirus si aggiunge alla crisi climatica, mentre centinaia di migliaia di disperati profughi siriani premono ai confini tra Turchia e Grecia, alle frontiere esterne dell’UE. Quale sistema di relazioni internazionali è il più adatto per fronteggiare i rischi globali sempre più frequenti e incombenti? Sicuramente non il “bilateralismo assertivo” di Donald Trump (che in realtà potremmo anche definire unilateralismo aggressivo e prepotente, che sgretola il tradizionale sistema di relazioni internazionali costruito proprio dagli Stati Uniti, insieme agli alleati europei e al Giappone, dal dopoguerra in poi) e neanche l’illusione sovranista del ritorno agli Stati nazionali come luogo mitico per la protezione dei propri cittadini: i virus, i disastri ambientali ed economico-finanziari non rispettano i confini, come abbiamo visto. Il multilateralismo, il dialogo, la cooperazione internazionale è l’unica, faticosa, forse più macchinosa e lenta ma sicuramente più efficace risposta. Per noi multilateralismo significa Unione Europea, che va dotata di più poteri, mezzi e risorse, in primo luogo da parte dei suoi principali “azionisti”, ossia i 27 governi degli stati membri. Il mancato accordo sul bilancio pluriennale 2021-2027 (su cui torneremo in un prossimo articolo) dell’UE e l’insufficiente coordinamento europeo nella gestione dell’emergenza Coronavirus rivela ancora una volta quanto l’Europa unita sia una costruzione storicamente necessaria, ma assai complessa e difficile. Nei prossimi giorni è probabile che accanto all’emergenza sanitaria (che speriamo si attenui) riesplodi quella dei profughi, alimentata dalla tragedia siriana (oltre 11 milioni di profughi, di cui 3,5 stipati in Turchia, in condizioni disumane, al confine con la Grecia, e quindi dell’UE). I sovranisti e la stampa di destra ritorneranno alla carica con l’ipocrita domanda di sempre: dov’è l’Europa ? Ebbene: ricordiamoci che su 100 mila guardie di frontiera complessive in Europa, solo 3.000 appartengono a Frontex, ossia all’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera. Le altre 97 mila appartengono ai diversi Stati membri, che si guardano bene dal trasferire all’UE il controllo dei confini esterni dell’Unione. La domanda corretta, dunque, dovrebbe sempre più essere: cosa fanno gi Stati membri per mettere l’UE in condizione di agire efficacemente e tempestivamente nella gestione delle crisi nell’interesse dei cittadini europei, ossia di tutti noi?
*Esperto di istituzioni, politiche e programmi dell’UE

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