Lasciato morire a Lugo, Ausl parte civile nel processo parallelo

Lugo

RAVENNA. La morte per overdose di un ragazzo di 19 anni e un’ombra inquietante sul Sert di Ravenna, da dove uscirono le dosi di metadone che gli costarono la vita. Per il dramma legato alla fine di Matteo Ballardini, l’Ausl Romagna ha deciso di tutelare la propria immagine costituendosi parte civile nel processo parallelo che riguarda approvvigionamento di sostanze psicotrope e antidepressivi, ceduti secondo l’accusa in modo irregolare da una dottoressa del servizio per le tossicodipendenze e poi finiti nel mercato dello spaccio lughese.

Le condanne
Il processo per l’omicidio volontario del giovane “Balla” si è chiuso lo scorso luglio con la condanna dei quattro “amici” che la notte tra l’11 e il 12 aprile 2017 lo lasciarono morire in piena overdose chiudendolo in auto anziché soccorrerlo. E mentre si attende l’appello per la 24enne Beatrice Marani, il 29enne Leonardo Morara, il 23enne Simone Giovanni Palombo e il 26enne Ayoub Kobabi, è già stata fissata l’udienza preliminare davanti al gup Corrado Schiaretti nei confronti del medico psichiatra del Sert. Si tratta della 64enne Monica Venturini, indagata in concorso con altre due donne, la stessa “Bea” Marani, e la zia di quest’ultima, la 68enne Cosetta Marani, all’epoca dei fatti infermiera responsabile all’Ausl di Imola. Sono accusate a vario titolo di peculato, perché le dosi di metadone spacciate dalla 24enne erano proprietà dello Stato, ma anche di falso, per la contraffazione dei certificati medici, e per avere prescritto abusivamente sostanze stupefacenti.

Il “super anonimato” al Sert
«Ingenti dosi di metadone», secondo la richiesta di rinvio a giudizio firmata dal procuratore capo Alessandro Mancini e dal sostituto procuratore Marilù Gattelli, sarebbero fuoriuscite per un periodo prolungato senza controllo dal Sert. Lo avevano scoperto gli investigatori della squadra Mobile approfondendo le verifiche sulla boccetta rinvenuta nella Polo di Ballardini, il giorno stesso del ritrovamento del cadavere. Anche l’analisi delle chat tra la vittima e la 24enne aveva alimentato i sospetti di un possibile approvvigionamento diretto. Eppure negli archivi del servizio per le tossicodipendenze il nome di Beatrice Marani non figurava tra i pazienti. Si è poi scoperto il perché: la giovane aveva iniziato il percorso di recupero dall’ottobre del 2016 ma la dottoressa (tutelata dall’avvocato Alessandra Marinelli) l’aveva inserita sotto la dicitura “MRN-EA”, in una sorta di anonimato fatto con consonanti e vocali di cognome e nome, forse perché sapeva che i familiari lavoravano in ambito sanitario.

Richieste fatte al telefono
E infatti a ritirare i farmaci - tenuti sotto chiave negli uffici di Ravenna - ci pensava la zia, (difesa come la 24enne dall’avvocato Fabrizio Capucci), che oltre a ricoprire il ruolo di dirigente infermieristico, all’epoca era anche responsabile presso strutture assistenziali dell’Ausl di Imola. Dietro alle prescrizioni false, secondo l’accusa, ci sarebbe anche la sua intercessione, grazie alla quale la nipote avrebbe evitato controlli clinici e colloqui individuali. Sarebbero bastate solo richieste telefoniche per i farmaci che poi la ragazza non assumeva con regolarità. Così si sarebbe garantita una scorta tale da meritarsi nell’“ambiente” della tossicodipendenza lughese il nomigliolo di “toxic sister”. Con l’udienza preliminare, comunicata alle parti a inizio marzo, anche l’Ausl ha dato mandato all’avvocato forlivese Valerio Girani, che ora potrà tutelare l’azienda per quello scandalo finito in tragedia.

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