Sessantacinque. Ho visto sessantacinque concerti di Bruce Springsteen in trent’anni, da aprile 1993 a maggio 2023. L’ho seguito da Caserta a New York, da Perugia a Francoforte, da Parigi a Trieste. E dopo il concerto numero sessantaquattro, al Circo Massimo di Roma nel 2016, mai avrei potuto pensare di aspettare sette anni per cantare di nuovo Born to run sotto un palco e dentro un pit. Già, il pit: quell’ambito settore che vent’anni fa è diventato l’oggetto del desiderio di tutti noi springsteeniani, la fetta di spazio più vicina alla transenna, più vicina a lui e alla band. Per vent’anni ce lo siamo conquistato con notti all’addiaccio davanti a qualche stadio o prato o palasport, con appelli e numeri scritti sul dorso della mano e autoregolamentazioni. Ora, invece, il desideratissimo pit A lo abbiamo comprato: un anno fa, a caro prezzo, senza che mancassero polemiche sui prezzi. Ma niente in confronto alle polemiche di questa settimana di maggio, visto che nessuno poteva prevedere che il ritorno di Bruce in Italia coincidesse con un’immane tragedia a due passi da Ferrara. Ma se n’è parlato già abbastanza e anche un po’ a sproposito (annullare il concerto? Confermarlo? Bruce avrebbe dovuto dire qualcosa sul palco? Bruce era stato informato o, come ha detto il sassofonista Ed Manion, non sapeva niente?), e io invece preferirei parlare di musica.
Il disco d’esordio di Bruce ha compiuto cinquant’anni a gennaio, e in tutto questo tempo i concerti, l’atteggiamento, l’impostazione live hanno avuto evoluzioni e cambiamenti. Chi ha iniziato a seguirlo negli anni Ottanta lo ricorda molto frenetico, asciutto, rigoroso, poco piacione, poco calcolato, con un grande filo conduttore in testa e quel grande amore per le cover (che poi è stato ereditato dai Pearl Jam) che ha fatto scoprire ai suoi fan un mare di musica sconosciuta, di artisti dimenticati, di canzoni sepolte. E poi, escludendo i seriosi e rigorosi tour solitari, lo ha visto diventare un Babbo Natale sorridente, generosissimo, sempre pronto a fare gag da palco con Clarence e Steve e a divertire ed emozionare generazioni di spettatori. Poi, dopo la morte di Danny Federici, il primo della band a lasciare il mondo terreno, e ancor più dopo quella di Clarence Clemons, il gigantesco sassofonista, lo abbiamo visto rendersi conto che anche una rockstar non è immortale, e a cercare l’abbraccio del pubblico, sempre pronto a farsi toccare dai fan, a far suonare la chitarra da mille mani, a cercare il contatto umano, perché la morte è dietro l’angolo e fa paura. Lo abbiamo visto portare in giro il tour di promozione di un disco – Working on a dream – e suonarne una canzone soltanto. Lo abbiamo visto accogliere richieste, improvvisare pezzi scritti su qualche cartello dai fan gridando in diretta gli accordi alla band, lo abbiamo visto far alzare e sedere a comando tutto il pubblico di San Siro mentre urlacchiava una sgangherata quanto perfetta Shout, lo abbiamo visto far cantare Waitin’ on a sunny day ai bambini e far salire sul palco chiunque per ballare Dancing in the dark…
E poi? E poi, in quei sette anni di attesa tra il Circo Massimo del 2016 e Ferrara del 2023, c’è stato il tour a Broadway. Sera dopo sera, sul piccolo palco di un piccolo teatro, Bruce ha tirato le fila della sua vita e della sua carriera attraverso quindici canzoni, narrazioni, passi della sua autobiografia. Dopo una vita a raccontarsi in musica, ha deciso di farlo anche con le parole.
Non era pensabile che facesse qualcosa del genere anche con la E Street Band, peraltro allargata con fiati, cori, percussionisti… ma in qualche modo, a Ferrara e nelle date di questo tour, ne ha portato lo spirito. Già: non avevamo mai visto, mai, Bruce parlare o cantare e vedere al contempo le traduzioni sui grandi schermi. Voleva comunicare, voleva superare le barriere di un pubblico non anglofono. E allora, se il concerto è iniziato a tutto rock con la tripletta No surrender, Ghosts, Prove it all night, poi la scaletta si è divisa per sezioni. Il momento big band, improvvisazioni tra jazz e be-bop, il momento grandi successi – nel finale –, tutto molto bello, ma c’è stato uno spazio, uno spazio bellissimo, uno di quei momenti che danno il senso a tutta la serata, a tutta la setlist, uno di quei segmenti di spettacolo in cui pensi per l’ennesima volta: non sono venuto a vedere un artista qualunque, non sono venuto a vedere la solita rockstar che fa il suo lavoro ben pagato con professionalità, no, sono venuto a vedere Bruce Springsteen, l’unico e solo Bruce Springsteen. Era già calato il buio – diciamocelo: la luce del giorno è nemica dei concerti, solo col buio ti senti pienamente avvolto dalla musica –, eravamo a metà scaletta, più o meno, quando Bruce ha fatto un discorso. E le sue parole sono comparse sui grandi schermi che dominavano il parco Urbano, il pit A, il pit B, il lontano pit C, il remotissimo pit D che forse era a Occhiobello, da quanto sembrava sperduto in fondo al prato.
C’eravamo già abituati allo strano odore misto di paglia e fango – sì, perché il fango era stato ricoperto con grandi quantità di paglia –, c’eravamo già abituati a tutta quella strana situazione ambientale e psicologica. E ci siamo ricordati che Bruce è un grande scrittore e un grande narratore.
Che scriva benissimo, beh, è ovvio: basterebbe leggere i testi delle canzoni di The ghost of Tom Joad, quei piccoli film in musica con particolari straordinari, tocchi da vero autore di short stories. Ma c’è gente che è ancora convinta che Born in the Usa sia una canzone patriottica e non la tragedia di un uomo tradito e scaraventato in un incubo dal proprio governo, gente che non si è messa a leggere il testo di The line, che non sa cosa intende dire il narratore, la guardia di frontiera, quando dice che per il suo collega Bobby Ramirez è un po’ diverso cacciare indietro i messicani di quanto lo è per lui, visto il cognome. Che non sa in quale maniera Bruce sa raccontare l’ascesa e la caduta del pugile di The hitter in un solo verso e usando i colori verde, rosso e nero. Che non sa che cosa sta dicendo l’operaio di Youngstown al padrone che lo ha appena licenziato, quel padrone che ha reso ricco abbastanza da dimenticare il suo nome.
Dunque, Bruce inizia a raccontare la storia della sua primissima band. La conosciamo tutti: abbiamo letto le biografie ufficiali, non ufficiali, l’autobiografia, conosciamo i Castiles, conosciamo George Theiss, che frequentava la sorella di Bruce, che gli ha sentito suonare la chitarra, che gli ha proposto di entrare nel gruppo. E da lì, dai Castiles, durati tre anni con due canzoni incise, è iniziata l’avventura.
E poi Bruce ci racconta di come ha visto morire George pochi anni fa, dopo che già erano deceduti tutti gli altri compagni di avventura, e lui si è reso conto di essere l’ultimo membro vivente dei Castiles, la prima band, l’avvio di tutto. E poi dice, più o meno, che sentire la morte che arriva è come stare in piedi su un binario buio mentre sta arrivando un treno in corsa. La terra trema, i fari si ingrandiscono. E più quel treno si avvicina, più tutto intorno all’uomo sui binari viene illuminato.
E poi Bruce canta Last man standing, la canzone su George Theiss e sui Castiles e su cosa significa essere sopravvissuti a tanti amici, da solo, con la chitarra, davanti a pochissimi occhi asciutti, in piedi sui binari mentre tutto viene illuminato. E poi rientra la band per una Backstreets strappacuore, con tanto di intermezzo parlato su una foto in veranda, lui, il suo amico che non c’è più nel giorno del matrimonio, del tenersi tutti i ricordi di chi è andato dentro di sé, conservandoli. E alla fine altro che occhi asciutti: siamo tutti disidratati.
Chi è tifoso di calcio come me lo sa come funziona: a volte vai allo stadio come se andassi in Vietnam. Non ne hai mica voglia di andarci, perché piove, perché fa freddo, perché fa caldo, perché sai già che la tua squadra perderà, perché la tua squadra fa schifo. Ma poi i tuoi segnano un gol bellissimo al novantaduesimo, e non senti più il freddo, il caldo, e la squadra non fa poi così schifo, è stata solo sfortunata fino qua. Ecco: dopo Last man standing e Backstreets nessuno si è più ricordato il fango e la paglia e le due ore di attesa per entrare nel pit, e i token, quei cosetti di plastica che rimpiazzano i soldi e che ti rimangono sempre in tasca, alla fine del concerto. Eravamo tutti grati e felici di essere lì, ancora una volta al cospetto di Bruce Springsteen, uno dei più grandi performer e songwriter della storia del rock. E dopo la grande festa finale, quando sono arrivate una dopo l’altra Thunder road, Born in the Usa, Born to run, Bobby Jean, Dancing in the dark con grandi siparietti tra Bruce e Little Steven, ecco che è ritornato il tema della morte e del portarsi dentro gli amici perduti con Tenth Avenue freeze-out e gli schermi che si riempiono di immagini di Clarence Clemons, il Big Man. E dopo la presentazione della band, Bruce rimane di nuovo solo con la chitarra. Riappaiono le parole sugli schermi per far capire bene I’ll see you in my dreams. Quante volte abbiamo sognato di rivedere una persona cara che non c’è più? Quante volte ho detto a mio padre “ma tu non eri morto?” mentre ce ne andavamo in giro tranquillamente per qualche paesaggio onirico, quante volte ho guidato un’auto inesistente accanto a mio nonno come se non avesse avuto un infarto il giorno in cui ero a Parigi per un concerto di Bruce, proprio la sera in cui Bruce mi ha guardato negli occhi dal palco mentre cantava You’re missing, un’altra canzone su qualcuno che non c’è più?
Ci rivedremo nei sogni. In attesa di rivederci davvero un giorno, dall’altra parte.
E ancora pensavamo a queste ultime parole, mentre più prosaicamente cercavamo di uscire dal pit A attraversando un poco simbolico ponte nel buio quasi totale, atterrando tra pozze di fango ormai non più protette dalla paglia, cercando di capire quale fosse la giusta uscita dal parco Urbano di Ferrara, a trenta chilometri da una terribile alluvione, una tragedia che era nelle teste di tutti noi.
Aspettando la prossima volta. Il prossimo palco. Aspettando Bruce, di nuovo, ancora.