I cinque gelati per novanta bambini

Immaginate di essere in un parco dove 95 bambini di un centro estivo stanno facendo una festa. E adesso immaginate di assistere a questa scena: 5 di loro hanno una coppetta di gelato a testa per fare merenda e gli altri 90 hanno cinque coppette in tutto da dividersi. Sono sicuro che pensereste che non è bello, che non è giusto. Ecco, questa odiosa disuguaglianza è quella esistente oggi in Italia. Lo dice un rapporto della Oxfam su ricchezza e povertà. Il 5% dei “paperoni” possiede una ricchezza complessiva uguale a quella del 90% dei meno ricchi.

Ma c’è una cosa ancora più preoccupante rispetto a questo dato. Nell’anno 2000 il 10% degli italiani più benestanti aveva in mano il 50,5% della ricchezza totale nazionale. Nel 2018 questa percentuale era salita al 56,1%. Al contrario, la metà dei connazionali in condizioni economiche meno floride a inizio secolo possedeva il 13,1% della ricchezza del Paese, mentre ora la quota è scesa al 7,8%. Allora bisognerebbe smettere di parlare di crisi economica, e infatti il “tesoro” complessivo nelle tasche degli italiani risulta aumentato sensibilmente anche nelle ultime rivelazioni fatte. Fermo restando che la stagnazione del Pil è un problema da affrontare e che il debito pubblico è un macigno che non si può fare irresponsabilmente finta che non ci sia, i numeri ci dicono che il vero guaio è un altro: la distribuzione del benessere avviene in modo sempre più sbilanciato. E’ un guaio da un punto di vista etico e anche sociale, perché è quella la prima fonte di una frustrazione diffusa che si trasforma spesso in odio, nella sua forma peggiore, che è la guerra fra ultimi. E alimenta una richiesta di protezione, pericolosa per la stessa democrazia, rivolta al salvatore della patria di turno, che può presentarsi con due facce ugualmente oscene: o l’uomo forte che mostra i muscoli e fa la faccia feroce o il demagogo populista incantatore.
Se le cose stanno così, la vera sfida su cui si dovranno misurare le forze politiche, non solo a Roma ma anche nelle città, a partire da quelle dove i sindaci eletti di recente dovranno predisporre i bilanci dopo l’estate, è proprio la riduzione delle disuguaglianze. Questo obiettivo è legato a due variabili: la tassazione e il lavoro.
Su entrambe queste variabili non c’è una ricetta condivisa. Personalmente sono convinto che la strada che le amministrazioni e i consigli comunali dovrebbero percorrere su questi due temi chiave sia semplice: fare esattamente il contrario di quanto il governo gialloverde ha fatto sulla occupazione e intende fare sulla tassazione.
Sul primo fronte, la risposta targata 5 Stelle è stata sbagliata in partenza, perché ha messo in secondo piano la cosa più importante da fare: mettere in piedi un efficace sistema integrato tra istruzione, formazione e ricerca organizzata del lavoro. Come? Costruendo un rapporto diverso tra scuola, università e imprese e ripensando da cima a fondo e potenziando i centri pubblici per l’impiego (o come diavolo li si vuole chiamare). E invece no: si è fatto partire “allo sbaraglio” il reddito di cittadinanza, senza avere costruito i pilastri per non ridurlo a un triste assistenzialismo. Da questo punto di vista, un errore simile a quello dei 5 Stelle lo aveva fatto a mio avviso Renzi, quando nel lanciare il Jobs Act aveva totalmente trascurato quegli stessi aspetti di cui ora Di Maio prova a occuparsi tardivamente. Lo sta facendo con la presa in giro dei 3.000 “navigator” da reclutare per aiutare chi percepisce il reddito di cittadinanza a cercare un lavoro. Parlo di presa in giro perché finora sono state quasi 700.000 le domande di reddito di cittadinanza che sono state accolte e ditemi voi come ogni navigator potrà efficacemente affiancare più di 230 persone (che in gran parte hanno situazioni personali caratterizzate da fragilità molto complicate) nella ricerca di opportunità occupazionali. E poi si pensa davvero che i navigator abbiano la bacchetta magica, se prima non si crea quella rete virtuosa di cui dicevo prima?
Passando al capitolo tasse, l’idea della flat tax che Salvini sta trasformando nel suo nuovo ma zoppo cavallo di battaglia va semplicemente nella direzione opposta rispetto all’esigenza di ridurre la forbice tra i primi e gli ultimi. Sarebbe una scelta che favorirebbe spudoratamente chi ha di più e il ministro leghista ci risparmi la favola secondo cui, arricchendo ancor di più chi è già ricco, alla fine qualche briciola dal tavolo cade giù, a beneficio anche degli altri. Neppure i più incalliti cantori del capitalismo più sfrenato ci credono veramente. D’altronde, è l’idea di progresso che ha dominato la civiltà occidentale da almeno tre secoli e ha prodotto esattamente quei 5 gelati per 5 bambini e altri 5 per i restanti 90 più fortunati. L’unica scelta giusta e ragionevole sarebbe invece quella di aumentare un po’ i gelati per quei 90, magari chiedendo anche ai 5 golosoni di rinunciare a uno dei loro cinque gelati. Questo, a livello locale, significa modulare più equamente tributi e anche tariffe, chiedendo un po’ di più a chi può permetterselo per convertirlo in welfare e servizi a sostegno di chi ha bisogno di una mano. Con un’avvertenza: controllino bene che quei 90 bambini che devono dividersi 5 gelati ne abbiano davvero 5, perché ho il sospetto che parecchi di loro abbiano gelati che tengono nascosti. Nel mondo degli adulti si chiama evasione fiscale e sta proprio lì una delle principali cause delle disuguaglianze.

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