30 anni fa lo scioglimento della Democrazia Cristiana

Lo scioglimento ufficiale è datato 18 gennaio 1994. Ma la fine della Democrazia cristiana viene di fatto temporalmente collocata al 26 luglio 1993, giornata conclusiva del congresso costituente all’Eur. Esattamente 30 anni fa la Balena bianca, che per mezzo secolo ha segnato la politica italiana, cadde a seguito della crisi politica che vide la rottura dei vecchi equilibri, l’ascesa dei movimenti autonomisti e le inchieste di Mani Pulite. Si chiuse un’era che vide anche in Romagna esponenti di primo piano dello Scudo crociato. Come il ravennate Benigno Zaccagnini, che fu tra i fondatori del partito e segretario della Democrazia cristiana dal 26 luglio del 1975 al febbraio del 1980 durante il periodo del compromesso storico, nonché membro dell’Assemblea Costituente nel 1946, deputato e senatore fino alla sua morte nel 1989. In una terra storicamente rossa, la Dc riuscì comunque a ritagliarsi i suoi spazi, come a Rimini dove fu rappresentata dall’avvocato Sergio De Sio che fu vicesindaco all’inizio degli anni Novanta. Poi il tracollo. A Forlì, dove ancora alle elezioni del 1992 aveva il 20,73% e a Ravenna il 18,08%, uscì di scena, tanto che la tornata successiva, due anni dopo, il Partito popolare, sorto sulle ceneri dello Scudo crociato ottenne appena l’8,97% e il 5,94%.

«Se avesse vinto il Pci avremmo fatto la fine dell’ex Jugoslavia»

«La Dc ha imboccato l’ultima fase della sua storia senza esserne consapevole. Niente lasciava presagire quel che sarebbe successo. Eppure, a distanza di anni, si può certamente dire che ha svolto un ruolo positivo per il Paese, anche se non sono certo mancati alcuni aspetti negativi».
Nicola Sanese, 81 anni, riminese di origine abruzzese, è stato uno dei più importanti uomini della Democrazia Cristiana in Romagna. Cinque volte eletto alla Camera dei Deputati (è stato deputato per 18 anni), è stato sottosegretario nei governi di Craxi, De Mita e Fanfani e ha lasciato la politica proprio 30 anni fa, quando l’assemblea del partito dello scudocrociato decise lo scioglimento. Segretario generale della Regione Lombardia per 18 anni, oggi è consigliere di amministrazione alla Maggioli.

Sanese, come entrò nella Dc?
«Il mio impegno iniziò nel 1975. L’allora segretario Benigno Zaccagnini (ravennate) aveva compreso che il partito attraversava un momento difficile perché stava andando in crisi la capacità di rappresentare il mondo moderato dei cattolici, delle imprese, delle famiglie, degli agricoltori, dei pensionati… Chiese un impegno ai giovani e io e alcuni miei amici accettammo. Così mi ritrovai in consiglio comunale con l’amico Antonio Smurro. Io lavoravo in Promozione alberghiera e la Dc ci consentì di presentarci come indipendenti. L’anno dopo fui eletto alla Camera».

Cosa sarebbe stata l’Italia senza la Dc?
«Se avesse vinto il Pci avremmo fatto una fine simile alla ex Jugoslavia. Tutta un’altra musica. Ma la vita e la storia non si fanno con i se».

Quali sono stati gli effetti di un partito che ha avuto una egemonia così a lungo nella storia del Paese?
«La Dc incarnava i valori elaborati dal Codice di Camaldoli. Dall’interpretazione data da De Gasperi negli anni Settanta si era passati a un ulteriore sviluppo del tema grazie anche al confronto con gli alleati di Pentapartito. Era fondamentale il valore della persona, il lavoro come dignità del cittadino, la famiglia e quindi la casa, la salute, la scuola, la giustizia. Tante cose sono state fatte in questa direzione».

Esempi invece negativi?
«Beh, il debito pubblico è iniziato a crescere. La sostenibilità veniva garantita dall’inflazione, da politiche monetarie».

Come si arrivò alla fine della Dc?
«All’inizio degli anni Ottanta ci si era posti il problema di avere un rapporto più vero con la gente, non solo col nostro elettorato. Si partì con le assemblee degli esterni. E anche gente di altra provenienza, come Indro Montanelli, capiva che la Dc era in grado di portare avanti lo sviluppo del Paese. Negli anni Ottanta ero segretario organizzativo e quindi vivevo da vicino la nostra storia. Sul finire del decennio il terrorismo era stato in qualche modo sconfitto. C’erano tante luci: le privatizzazioni, un certo arretramento della posizione dello Stato a vantaggio dell’impresa, l’esperienza di governi a guida socialista o repubblicana… Ma nel 1992 arrivò un elemento di frattura grave: Mani pulite. Questo è il punto cruciale. La Dc imboccò l’ultima parte della sua storia senza accorgersene, senza averne consapevolezza».

Come giudica i fatti del ’92?
«È un fenomeno molto complesso. Da una parte i partiti sostenevano tutta l’attività politica e si finanziavano con le quote degli iscritti per una percentuale irrisoria. Il sostegno maggiore arrivava da imprese e imprenditori attraverso forme che erano comunemente ritenute legittime a prescindere dal fatto che nell’uso di queste risorse c’è stato tanto di improprio e tanto di illegale fino a portare a reati gravi come l’appropriazione indebita o come lo sfruttamento a fini personale di queste ricchezze. Con la vicenda giudiziaria del ’92 è iniziata una frattura grave: un potere (quello giudiziario) ha preso il sopravvento su un altro (quello legislativo) e lo ha delegittimato. Quando nelle democrazie succede una cosa del genere c’è una crisi grave: in alcuni casi si va verso la dittatura, nel nostro caso c’è stato un danno incredibile di cui paghiamo ancora oggi le conseguenze. Fu fondato il Partito popolare e io decisi di tornare alla mia cooperativa e poi fui chiamato a Milano da Formigoni dove per 18 anni ho fatto il segretario generale della Regione».

Chi è stato l’erede della Dc?
«Non c’è stato alcun erede. Col senno di poi, però, va detto che la scelta di molti della Dc di ritirarsi fu sbagliata. Bisognava combattere nonostante si fosse stati attaccati. Ci voleva una resistenza».

Che ruolo ha svolto la Dc a Rimini e in Romagna, dove spesso stava all’opposizione?
«In queste regioni rosse, e mi riferisco non solo all’Emilia-Romagna ma anche alla Toscana o alle Marche, il ruolo della Dc è stato un’esperienza ancor più coerente a quello che voleva essere l’impegno. Chi si impegnava qui sapeva che non avrebbe partecipato ai governi dei territori ma lo faceva perché credeva in una diversità nelle politiche di governo e voleva sostenere le politiche nazionali. A Rimini ci fu una brevissima esperienza di pentapartito a inizio anni Novanta… ma chi si sarebbe mai potuto aspettare che oggi una città come Forlì potesse essere amministrata dal centro destra?».

C’era consociativismo?
«No. Ma su molte questioni si lavorava insieme perché si dovevano affrontare i problemi del territorio. Ho un buon ricordo dei sindaci e dei parlamentari sia del Pci sia del Psi. I comizi erano settari, ma quando si facevano le battaglie sulle attività economiche, sulle infrastrutture, sul superamento della calamità delle mucillagini o sulla nascita della provincia di Rimini si dialogava».

Nostalgia di quei tempi?
«Non si torna indietro. La nostalgia è un termine che non sento mio. Però c’è una valutazione con il senno dell’oggi: si possono veder alcune opportunità che impiantate in un modo un po’ diverso avrebbero potuto portare oggi a condizioni migliori».

Come giudica invece Formigoni?
«Con lui abbiamo fatto molta strada insieme. Quando fu eletto mi chiese di dargli una mano io accettai ma feci un patto non mi sarei mai più occupato di politica ma solo della struttura. Formigoni in quegli anni divenne un grande politico».

Ma ha commesso degli errori…
«Sì, ma non così per come è stato condannato. Lui è stata un’altra di quelle vittime di un potere che è arrivato all’accanimento. Anche io sono stato giudicato nello stesso processo ma hanno dovuto ammettere che non c’entravo niente e sono stato assolto in primo grado con formula piena. Mi hanno fatto tribolare per quattro anni».
Pietro Caricato

Foto: Fabio Blaco

Pinza: «Per decenni punto di riferimento per tanti italiani»

«La Democrazia Cristiana ha rappresentato per decine di anni il punto di riferimento di gran parte della popolazione e riconosciuto implicitamente come partito di governo anche da chi era all’opposizione e non aveva possibilità di accedere al governo perchè non aveva i voti». Lo dice Roberto Pinza, deputato per la prima volta del 1992 con la Democrazia Cristiana, poi rieletto nel 1996 nelle file del partito Popolare, per poi restare in Parlamento con la Margherita fino al 2006, sottosegretario al Ministero del tesoro nel primo governo Prodi e sottosegretario di Stato al Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica nel primo e secondo governo D’Alema. «Poi purtroppo è iniziato un periodo di crisi, dall’inizio degli anni Ottanta quando, come spesso accade nei partiti che hanno una lunga durata, si è perso il senso dell’orientamento originario ed è diventato un partito che si occupava più della raccolta del consenso, come fanno anche tanti partiti moderni, e chi fa questo non è destinato a resistere per molto. Quando io sono arrivato, nel 1992, la crisi era in una delle sue ultime convulsioni finali. Adesso che sono passati tanti anni e si ha modo di riguardare il passato si vede che la Dc è stato uno dei grandissimi partiti europei. Era un partito che perseguiva fortemente un senso di equilibrio sociale, mentre oggi si vede una grande distanza tra primi e ultimi e la sostanziale spezzatura della società che invece la Dc aveva ricompattato». Una grande storia, che però per Pinza non può tornare. «Come dicono i francesi, i cavalli di ritorno non vincono mai. La sua storia non può più essere proposta, anche se è vero che oggi è diffusa una insoddisfazione generale per una situazione che è fatta più di emozioni e ricerca di consenso rispetto a una più profonda riflessione sul futuro. Allora c’erano leader, nella Dc come in altre forze politiche, che non andavano a pietire consenso con una frase ad effetto, ma lavoravano nel profondo. Erano veri statisti che lavoravano con prospettiva lunga»
Gavino Cau

Baccarini e l’esperienza faentina «Fui deluso da Martinazzoli Mentre adesso il Pd è a un bivio»

Ricorda i momenti nobili e fondativi, il protagonismo nella realtà manfreda e il ruolo determinante in quella ravennate, le collaborazioni col Pri in quella forlivese. E poi il momento di dissoluzione: «Io sostenni Mino Martinazzoli, ma oggettivamente mi deluse». Pietro Baccarini è stato un interprete di quello che considera il valore aggiunto dato dalla Democrazia Cristiana in Romagna, ossia essere fulcro «del senso di responsabilità nella politica amministrativa». Sindaco di Faenza nel 1974/75, poi presidente della Camera di Commercio di Ravenna per 17 anni, per tutti è l’avvocato Baccarini e alla Dc faentina ha dedicato due volumi. «A Faenza la Dc godeva della cultura di impegno sociale di cattolici democratici come Carlo Zucchini, Antonio Medri e Antonio Zucchini che fu ultimo sindaco democratico prima della cacciata fascista. Ebbe radici profonde, che nel Ventennio rimasero carsiche, poi divennero egemoni. A Ravenna invece personalità come Zaccagnini e Cavalcoli ebbero la capacità di guidare lo sviluppo economico della città». In continuità sarà la sua presidenza della Cciaa, alle prese con la crisi Ferruzzi e la nascita dell’Autorità Portuale, con Forlì che vedrà consolidare il rapporto col forte Pri attraverso il ruolo di Roberto Pinza. Poi la scelta del 1993: «Era in corso un indebolimento strutturale da anni – testimonia Baccarini –. Non si seppe reagire nella maniera giusta alla caduta dell’area dei dorotei. Il cambio di passo auspicato con Martinazzoli non ci fu e il passaggio verso il Ppi fu un sostanziale arrendersi a questo quadro, con Tangentopoli che montava».

Così arrivò Berlusconi, per un gap di leadership e una perdita di identità dei partiti: «Vuole trovare analogie col Pd? No, le situazioni non sono sovrapponibili, però il Pd è a un bivio. Non deve abbandonarsi ad un’opposizione ottusa e decidere cosa essere. Fa bene Prodi a incarnare un ruolo da unificatore, visto che il suo intervento a Cesena vuole avere questo spirito. Lui seppe dare una cittadinanza al mondo cattolico nel ’96 – ricorda Baccarini –, e oggi può essere dialogante con quella parte che può avere altre tentazioni. E’ adatto anche per la sua tensione morale, che è propria di quella tradizione politica. Altrimenti c’è il Macronismo, ma non vedo interpreti in Italia».
Andrea Tarroni

Zattini: «C’era maggiore capacità di dialogare per il bene comune»

Gian Luca Zattini, attuale sindaco di Forlì, nel 1975 è entrato in politica con le elezioni amministrative a Meldola, militando in consiglio comunale nelle file della Democrazia Cristiana. «L’idea iniziale che ci animava, partendo dalle parrocchie, dallo scoutismo e dall’Azione cattolica, era entrare in un contesto di presidio del mondo libero occidentale, che era qualcosa di molto vago, ma per molti è stato lo stimolo iniziale. A quei tempi era quasi un confine – ricorda Zattini –, c’era chi amava l’occidente e la democrazia, e dall’altra parte c’erano i comunisti ancora molto legati a un concetto stalinista. Poi nella pratica, quando ero consigliere comunale, era tutto più soft, c’era più rispetto e capacità di dialogo. Quello che rimpiango di quell’epoca è il concetto di una differenza enorme, ma con tanto rispetto. Le divisioni era più prima e dopo i consigli comunali quando si facevano gli ordini del giorno sulla politica estera, però sul resto c’era tanta capacità di dialogo sui temi concreti. Credo sia stata una scuola e adesso, in tanti momenti, mi sembra che si possa anche rimpiangere un concetto diverso di fare politica». Zattini ammette che quel mondo non tornerà.

«Tante volte si è vagheggiato l’idea del ritorno a un partito che sia la casa dei cattolici, però quella fase credo sia irripetibile. Rimane il fatto che di quel periodo si potrebbero recuperare quei concetti: diversi, divisi, ma in determinate circostanze avere la capacità di fare squadra assieme, per l’obiettivo del bene comune». Nel suo percorso politico Zattini ha avuto modo di interagire anche con la nascita delle liste civiche. «Si tratta di liste che avevano la funzione di aggregare persone che non si riconoscevano in un partito, ma hanno avuto questo boom perchè nel giro di 48 ore sono scomparsi due terzi del patrimonio politico italiano, dalla Dc, ai repubblicani, ai socialisti, ai socialdemocratici e ai liberali. Una storia azzerata in pochi mesi e questo ha disorientato tanta gente».
Gavino Cau

La Nuova Dc si riorganizza anche in Emilia Romagna

Il professionista forlivese Antonio Spadolini è il nuovo vice segretario organizzativo nazionale della Democrazia Cristiana. L’incarico gli è stato conferito nei giorni scorsi con lettera a firma del Segretario politico nazionale della Democrazia Cristiana Angelo Sandri. Antonio Spadolini (classe 1959) professionista forlivese con una consolidata esperienza di Energy Manager impresa con sede a Forlì, già ricopriva il ruolo di Segretario organizzativo provinciale della Democrazia Cristiana della provincia di Forlì-Cesena ed ora è chiamato a questa nuova importante assunzione di responsabilità a livello regionale.

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